Per sopravvivere, la Repubblica deve farsi un po’ Impero? Sembra suggerire questo Carlo Prosperi, nella recensione de “Il mondo secondo Star Wars” di Cass Sunstein. Infatti, sostiene, da un lato che i Ribelli “devono ristabilire l’equilibrio nella Forza, in una lotta fra bene e male che rievoca la Guerra Santa dei jihadisti”; dall’altro, “personaggi come Darth Vader e Tarkin sono ossessionati dalla stabilità e dall’ordine”: magari esagerano, ma non è che se ne possa fare a meno. Tant’è che, cercando delle analogie tra il nostro universo e quello di Guerre Stellari, rintraccia un’assonanza con gli Stati Uniti che, secondo lo stesso Sunstein, hanno assunto tratti imperiali nella guerra al terrorismo (e, si potrebbe aggiungere, prima ancora nella guerra alla droga). Sembra insomma che qualche concessione al Lato Oscuro sia in qualche modo “necessaria per assicurare i loro interessi, responsabilità e compiti globali”.
Le analogie sono sempre arbitrarie, quindi non avrebbe senso discutere quanto di Palpatine ci sia in Donald Trump (o in Barack Obama) e quanto le cellule dell’Isis abbiano in comune con Luke Skywalker. Ha invece senso calarsi nella realtà di Star Wars e interrogarsi sul suo messaggio politico – come fa appunto Sunstein nel suo volumetto. Ecco: se ragioniamo secondo quelle coordinate, allora la risposta è no, non si può accogliere un po’ di Lato Oscuro. Le situazioni reali non sono mai bianco o nero, naturalmente: ma le scelte sottostanti, specie quando riguardano questioni tanto dirimenti quali le libertà personali, la concentrazione e l’utilizzo del potere, impongono di esercitare un’opzione. O tendi la mano ai Sith, oppure rimani dal lato degli Jedi. Nessun comportamento è mai irreversibile, beninteso: perfino Lord Vader alla fine si redime (e lo fa per amore, in un delicato gioco di specchi col momento in cui aveva accettato l’oscurità dentro di sé, anche allora per amore).
Il messaggio politico di Star Wars è, secondo questa logica, non ambiguo: la Repubblica diventa Impero perché l’opinione pubblica si rassegna che perdere la libertà sia l’unico modo per conservare l’ordine. Come commenta Amidala dopo l’investitura di Palpatine, “è così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi”. Guerre Stellari è essenzialmente una storia sul potere: e, in questo, appartiene a un vasto filone narrativo di cui fanno parte, per citarne solo alcuni, “Il Signore degli Anelli”, “Harry Potter” e “Game of Thrones” (i primi due, come Star Wars, maggiormente concentrati sulla inevitabile corruzione che il potere porta con sé; il terzo sul crudo e realistico esercizio del potere).
Se questo è vero, allora ne segue che non si può essere un po’ Sith: o lo si è, o non lo si è; o si sta col Cancelliere che diventa Imperatore, o si combatte coi Ribelli per la ricostituzione della Repubblica. Sul piano più strettamente istituzionale, la contrapposizione è tra la democrazia rappresentativa (la Repubblica) e l’autoritarismo (l’Impero). La lezione di Star Wars è, anche qui, di estrema attualità: come ha scritto anche recentemente Angelo Panebianco, il comune denominatore dei diversi populismi sta proprio nel rigetto della democrazia rappresentativa nel nome di un “leader passe-partout”. Un esempio illuminante di questo trend culturale è il discorso di insediamento di Trump: parole come “constitution” o “liberty” non compaiono, mentre il passaggio chiave recita “January 20th 2017, will be remembered as the day the people became the rulers of this nation again”. In sostanza, l’identificazione tra l’uomo al comando e il suo popolo, senza più la mediazione dialettica degli inutili orpelli democratici. Ma questo ci porta lontano ed è, fondamentalmente, un altro discorso.
Allo stesso modo, valutare le scelte interne e internazionali degli Stati Uniti, o l’Isis, o la condotta di qualunque altra entità statuale o non statuale, è un altro paio di maniche. È perfettamente legittimo rigettare come semplicistico il ragionamento di George Lucas (che si ispirò a Richard Nixon: col beneficio del tempo trascorso, possiamo dire che fu un’iperbole…). Vi sono, tuttavia, delle lezioni che travalicano la trama di Guerre Stellari, e che contribuiscono a spiegarne il successo planetario e trans-generazionale: la principale è che si può mediare sugli strumenti o essere pragmatici nei contesti (Han Solo non ha mai smesso di fare il contrabbandiere, in fondo), ma sui principi no.
In Guerre Stellari, il colpo di Stato di Palpatine si realizza perché, di fronte a una situazione oggettivamente disordinata, il sistema politico appare incapace di reagire, perdendosi in dibattiti vuoti e incomprensibili. Di fronte a questo sostanziale immobilismo, il Cancelliere si presenta come l’uomo che risolverà tutti i problemi, purché gli vengano concessi poteri straordinari. È esattamente qui che sta il cedimento: le facoltà dittatoriali che il Senato galattico gli riconoscerà, pur essendo raccontate come un mezzo, sono in realtà il fine dell’Imperatore. È per questo che la trasformazione della Repubblica in Impero non sarà temporanea: ed è per questo che ogni involuzione in senso più o meno dittatoriale difficilmente rientra da sola, senza qualche evento traumatico di rottura dell’ordine costituito per ristabilirne uno nuovo e più rispettoso dei diritti individuali.
La bottomline di Guerre Stellari non è, in astratto, che non esistono poteri buoni: è che la concentrazione dei poteri, le deroghe alle normali tutele dei diritti individuali, e la rinuncia – anche parziale, anche temporanea – alla libertà sono un modo di unirsi all’applauso sotto il quale tutto si spegne.