La Corea del Nord ha trovato “del buon materiale per attaccare Donald Trump“, scrive la Associated Press, riferendosi al “libro” del momento, quello di Michael Wolff che critica aspramente la presidenza americana. Chi non ha avuto da qualche contatto whatsapp quel meme con il presidente nordcoreano Kim Jong-un che ridacchia tenendo in mano una copia di Fire&Fury? Più o meno i media del regime di Pyongyang si muovono secondo questa linea: il principale giornale del Nord, il Rodong Sinmun, gestito dal Partito dei lavoratori al governo, ha pubblicato un articolo sull’argomento, su come ha reagito Trump e sul perché quel testo sta vendendo così bene. Il suo successo è legato ai “sentimenti in rapida accelerazione anti-Trump nella comunità internazionale”, dice l’articolo, “il libro anti-Trump si sta diffondendo in tutto il mondo, quindi Trump viene massicciamente umiliato in tutto il mondo”, e ancora, secondo il regime, la popolarità che ha avuto la pubblicazione di Wolff “predice la fine politica di Trump”.
Kim s’esalta, ovviamente: la scorsa estate Trump lo aveva minacciato di lanciargli contro “fuoco e furia come il mondo non aveva mai visto”, ora quello stesso “fire and fury” fa da titolo di un libro che lo dipinge come un leader che non capisce il peso del suo ufficio e la cui competenza è messa in dubbio dagli aiutanti. E non va sottovalutato il momento: i soliti strali anti americani del Nord arrivano mentre Pyongyang ha riaperto un canale di comunicazione con Seul, invierà una delegazione alle Olimpiadi invernali, e sembra crearsi l’imbocco di un (ancora distante) processo diplomatico per gestire la crisi.
Washington, per dichiarazione diretta del presidente, sarebbe anche disposto a contatti diretti con il regime, “a momento opportuno”. Questo mercoledì. Poi, in un’intervista rilasciata a un media amico come il Wall Street Journal e pubblicata giovedì, Trump ha addirittura detto: “Ho probabilmente un rapporto molto buono con Kim Jong Un”. La frase è in mezzo a un discorso più ampio, in cui Trump spiega di aver capito che Pyongyang sta usando l’apertura olimpica come strategia, ma è comunque un po’ misteriosa ed è lasciata lì senza approfondire ulteriori dettagli e senza precisare se abbia mai parlato o meno con Kim. Poi ha aggiunto sul se: “Non commento. Non voglio dire se l’ho fatto o meno. Non voglio commentare”.
L’obiettivo americano è cercare di restare nell’affare: Pyongyang ha avviato il dialogo olimpico anche come strategia per creare un cuneo tra Corea del Sud e Stati Uniti, perché considera la partnership tra i cugini e gli americani una minaccia continua. Nello stesso giorno in cui s’è tenuto l’incontro con i sudisti, il 9 gennaio, i soliti media nordcoreani martellavano contro gli “imperialisti assassini” americani – una riprova, se si vuole, che quelle trattative sono (quantomeno: anche) un modo per creare separazione.
Intanto, poche ore prima che passasse via WSJ la linea (nebulosa) della Casa Bianca su eventuali contatti con Kim, tre B-2 Spirit erano atterrati a Guam, avamposto militare nel Pacifico finito più di una volta sotto le minacce guerresche del satrapo. I tre bombardieri strategici fanno parte di una rotazione business as usual con cui il Pentagono copre il quadrante indo-pacifico, ma è chiara la funzione di deterrenza. Per esempio, potrebbero essere il vettore per portare quel colpo preciso da lasciare il regime nordcoreano col “naso sanguinante”: la tecnica è stata rivelata anche in questo caso dal Wall Street Journal, sempre nel giorno in cui le delegazioni delle due Coree si incontravano nel villaggio della tregua a cavallo del 38esimo parallelo per decidere la questione olimpica. È la testimonianza che Washington ha intenzione di tenere aperte tutte le opzioni.
Nel frattempo la Cina continua a essere della partita: giovedì il presidente Xi Jinping ha telefonato personalmente all’omologo sudcoreano Moon Jae-inn per ringraziarlo dell’impegno profuso a favore del colloquio e spingendo per nuovi passi verso una soluzione intra-coreana della crisi. La linea dialogante di Seul è uno dei punti chiave della piattaforma politica che ha permesso a Moon di essere eletto a maggio (Giulia Pompili, esperta di Asia del Foglio, ricorda su Twitter che già ai tempi il Time aveva dato al neo leader sudcoreano la storia di copertina definendolo “The negotiator“). Ma il gioco cinese sembra essere piuttosto simile a quello di Pyongyang – che pure ultimamente è diventato un satellite imbarazzante da mantenere attorno alla propria orbita, e Pechino l’ha fatto capire accettando, di facciata, di votare a favore della sanzioni Onu punitive contro il regime di Kim.
Quando Xi una settimana fa ha arringato i suoi soldati chiedendo loro di essere pronti in qualsiasi momento alla guerra, ha visitato il museo storico nella base della divisione che ha ospitato il suo discorso, soffermandosi davanti alle foto della guerra di Corea, definendola “una guerra di resistenza all’aggressione americana in Corea”. Fanno notare Guido Olimpio e Guido Santevecchi (esperti di Nord del Corsera): si tratta di “un doppio segnale? Incoraggiamento a Kim se smetterà i test missilistici; monito a Trump per dirgli che alla fine i cinesi non abbandoneranno i fratelli nordcoreani?”. E anche la telefonata a Moon potrebbe seguire una traiettoria simile, cercando di allontanare Washington dalla pratica: al netto delle strategie del Nord, il merito profondo dei primissimi contatti tra Seul e Pyongyang è nelle volontà di Moon, Pechino gliene dà atto, ma nel frattempo nel farlo attacca Trump, che l’altro giorno ha definito “scemo” chiunque non riconosca che l’apertura olimpica non sia merito del modo con cui lui ha affrontato il dossier.