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Cosa è la geopolitica dei dollari. La nuova dottrina made in Trump

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Il lavoro di Donald Trump prima di diventare presidente degli Stati Uniti era, è noto, quello di fare affari nel complicato mondo immobiliare di New York City (e non solo): questa formazione da businessman di successo passa come un imprinting evidente nel modo con cui, non il Trump capo-del-mondo-libero, ma il Donald persona, s’approccia ai problemi. Prendere come ultimo esempio, in ordine cronologico, la questione aperta con la Palestina: via Twitter, che è lo spazio che DT preferisce per comunicare, ha minacciato i palestinesi di tagliare i fondi che Washington stanzia verso di loro annualmente, se si rifiuteranno di tornare al tavolo con Israele per il futuro di Gerusalemme. Pioggia di critiche dalla Terra Santa, con il presidente dell’Anp Mahmud Abbas che ha risposto che “Gerusalemme è l’eterna capitale della Palestina e non è in vendita per oro o per miliardi”.

Ma la questione in sé – il riconoscimento di qualche settimana di Gerusalemme come capitale dello stato ebraico da parte della Casa Bianca, che ha prodotto un terremoto nelle relazioni internazionali – diventa quasi marginale. Perché analizzando il comportamento del presidente si segue una linea evidente che torna fuori continuamente: Trump sa perfettamente che l’impegno americano globale a suon di dollari permette a Washington di avere un’enorme leva negoziale, che lui vuol far valere nell’ottica del già storico claim da campagna elettorale “America First”. Ancoro un esempio: il caso del Pakistan, contro cui il presidente americano ha tuonato altrettanto bruscamente in questi giorni. Per Trump è inconcepibile che Islamabad riceva sostanziosi finanziamenti americani per combattere il terrorismo e continua ad avere un profilo torbido nei riguardi dei gruppi radicali islamici (anche quelli armati), o che flirti con altri concorrenti americani su asset strategici come il commercio (vedi i rapporti tra Pakistan e Cina in continua crescita).

La minaccia che esce dal manuale del businessman applicato alla politica internazionale è basica: il rapporto deve essere reciproco, se volete i nostri soldi, dice il presidente americano (il nostro sostegno, direbbe un politico più affettato o polite, ma Trump vuol dimostrarsi un tipo che val sodo delle questioni e che non si fa rallentare dal protocollo diplomatico) dovete darci in cambio qualcosa. Col Pakistan, per esempio, può essere una maggiore limpidità in quelle relazioni fosche tra l’intelligence e il mondo dei gruppi armati, o un allineamento nell’orizzonte strategico americano (e il conseguente allontanamento dalla Cina); con la Palestina maggiore disponibilità a chiudere la questione con Israele, vicenda che il presidente s’è fissato come obiettivo da centrare e lasciare come sua legacy internazionale.

In molte occasioni questo approccio trumpiano alle questioni è stato esplicitato dall’ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley. L’ex governatrice del South Carolina è diventata il falco con cui la Casa Bianca ha battuto il modo di vedere le cose del presidente, ed ha sostituito in questo altre ali dell’amministrazione (per esempio: il dipartimento di Stato) che hanno mantenuto linee più classiche e moderate. È stata lei ad annunciare ai giornalisti corrispondenti dal Palazzo di Vetro la decisione di sospendere i dollari di aiuti che Washington invia al Pakistan, e sempre lei ha fatto sapere che stessa sorte potrebbe toccare ai finanziamenti all’agenzia dell’Onu che fornisce aiuti umanitari ai rifugiati palestinesi (si tratta di un organismo internazionale in cui gli Stati Uniti sono finanziatori di stra-maggioranza, per un impegno economico che nel 2016 ha raggiunto la quota di 370 milioni di dollari). È spesso lei a tuonare i moniti a difesa del primato americano nell’ambito internazionale e globalista per eccellenza.

Gli analisti (come il professor Carlo Pelanda su queste colonne mesi fa) ricordano che l’America sente il peso di questo impegno globale da anni: ora il nazionalismo economico di Trump si sta applicando al ruolo americano nei meccanismi internazionali, mettendoli in diretta concorrenza con l’impoverimento dei cittadini americani (“Perché dare dei soldi a istituzioni o stati che non ci garantiscono nessun ritorno, se i cittadini della Rust Belt soffrono il declino della loro prosperità?”, potrebbe essere un esempio a sintesi di questo genere di pensiero). Anche su questo genere di ri-equilibrio dell’impegno statunitense, in rottura con la tradizionale dottrina repubblicana, si è basato il successo elettorale dell’attuale presidente; organismi come l’Onu, per un iperattivo affarista, sembrano apparati burocratizzati al limite dell’utilità, o come la Nato, un’alleanza che costa tanto agli Stati Uniti ma che secondo l’ottica trumpiana restituisce poco. Trump è stato piuttosto esplicito su questo punto, sia nel suo primo discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite, sia nel suo primo intervento davanti agli alleati.

È lo stesso spirito con cui lavora per alzare le sanzioni contro i paesi che minano gli interessi nazionali americani: due esempi ancora, l’Iran che sta destabilizzando il Medio Oriente dove l’America è un player storico, e la Corea del Nord che sta giocando col delicato equilibrio del Pacifico senza che la Cina faccia abbastanza per fermarla. Le visioni personali di Trump sono quelle dei tweet, ma finora nelle azioni politiche sono state edulcorate da coloro che all’interno dell’amministrazione rappresentano una posizione più classica e moderata: il 2018, ha scritto il giornalista politico americano Mike Allen nella sua famosa newsletter, potrebbe essere però l’anno in cui il trumpismo passa dai tweet alle policy reali.

 

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