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Un anno di Trump raccontato da Giovanna Pancheri

È stato un amaro primo compleanno alla Casa Bianca per Donald Trump. Dopo un tiro alla fune fra repubblicani e democratici durato diversi giorni, il governo è rimasto senza fondi. Non è un evento senza precedenti, ma resta indice di una profonda divisione della politica americana. La stessa divisione, che non si è arrestata agli schieramenti partitici, ha impedito all’amministrazione Trump di capitalizzare le promesse fatte in campagna elettorale, fatta salva la riforma fiscale, su cui nessun repubblicano si è sentito di defezionare. I veri umori della politica e della società civile statunitense si possono però testare solo vivendo negli Stati Uniti, parlando con gli elettori, gli imprenditori, gli agricoltori degli Stati centrali e il ceto medio delle grandi città. Giovanna Pancheri lo fa da più di un anno, girando gli States per Sky Tg 24. A Formiche.net ha raccontato il volto dell’America post-Trump a un anno dalla sua elezione.

Trump ha festeggiato il primo compleanno alla Casa Bianca con uno shutdown del governo. Quali saranno le conseguenze immediate?

Nessuno perderà il lavoro. Già nel 2013 si è avuto uno shutdown per alcuni giorni. Per un po’ di tempo alcuni dipendenti pubblici, compresi quelli della Casa Bianca, saranno invitati a non presentarsi al lavoro, prendendosi dei congedi per poi essere pagati retroattivamente in un secondo momento. Diverso è per i militari: saranno pagati fino al primo di febbraio, ma se entro quella data non si troverà un accordo dovranno restare in servizio senza stipendio.

Chi ha optato per il braccio di ferro fra i repubblicani?

Trump non ha freni ideologici, fa un discorso di convenienza, quando si trova a fare una trattativa ragiona con la mentalità del businessman ed è più aperto a trovare soluzioni. Venerdì ha incontrato Chuck Schumer, il leader dei democratici al Senato, e sembrava avessero trovato un accordo. Repubblicani come il capo di Gabinetto Kelly invece non avevano alcuna intenzione di cedere.

Di chi sono dunque le responsabilità?

Le responsabilità sono bipartisan. I democratici potevano aspettare, il motivo per cui hanno fatto ostruzionismo è legato al decreto sul Daca per gli immigrati, che scade il 5 marzo. D’altro canto la Casa Bianca ha deciso in questi giorni di andare dinnanzi alla Corte Suprema perché il provvedimento sul Daca è stato bloccato da un giudice distrettuale. Non c’era urgenza di farlo ora, soprattutto mentre si sta cercando un accordo. È un gioco di ricatti incrociati: Trump è disposto a cedere sul Daca solo in cambio del via libera per costruire il muro con il Messico. Non è un bel segnale che accada nel primo anno di amministrazione, perché da un’idea della polarizzazione politica che si è creata.

La riforma del Daca è solo uno dei tanti obiettivi mancati da Trump nei primi dodici mesi. Dove ha registrato i fallimenti più cocenti?

Sull’immigrazione. Il Muslim Ban è stato bocciato, poi approvato ma in una versione molto più debole. Secondo poi, le infrastrutture, di cui questo Paese ha disperatamente bisogno. Non solo nelle periferie: il treno New York-Washington impiega tre ore e costa più di 200 dollari. Infine il muro con il Messico: Trump probabilmente rafforzerà ulteriormente le barriere in alcuni tratti, ma non costruirà un vero muro, che costerebbe tantissimo e sarebbe di dubbia efficacia. Fra San Diego e Tiguana, al sud della California, il muro attuale arriva fin dentro il mare, eppure resta un crocevia dei clandestini e dei narcotrafficanti. Ho chiesto spiegazioni a una guardia locale di confine, e mi ha risposto: “Se costruiamo un muro di 20 metri, loro troveranno una scala di 21”.

Quali invece i successi di questo primo anno?

Senza dubbi la riforma fiscale. L’economia continua ad andare bene, le borse battono record su record. Negli Stati Uniti una riforma sulle tasse alle imprese come questa ha, a differenza dell’Italia, un effetto immediato. Così aziende come la Apple o il gruppo Fca hanno già deciso di far rientrare i capitali negli States. Un banco di prova arriverà ad aprile con le cartelle esattoriali.

Sulle tasse è riuscito a fare più di di Ronald Reagan?

La riforma di Trump, a differenza di quanto in molti hanno detto, è molto diversa da quella di Reagan. Trump ha puntato tutto sui tagli delle tasse alle imprese, Reagan incentrò la riforma sulle tasse sul reddito. Trump corre un rischio: può essere che i grandi gruppi, con i soldi risparmiati, assumano, allarghino il loro business e tornino in America. Ma le medie imprese potrebbero fermarsi alla fase del risparmio. Basti pensare che lo Stato del Kansas, che quest’anno ha letteralmente azzerato le tasse alle imprese, è fallito nell’arco di poco tempo, perché non ha attirato i capitali sperati.

È stato anche un anno di scintille quotidiane con i media, culminato con i singolari Fake news awards consegnati da Trump alle principali testate americane. C’è stato un altro presidente che è arrivato ai ferri corti con i media fino a questo punto?

Nixon ebbe un confronto molto duro con i media, cercò di insabbiare le indagini sul Watergate, ma nulla di simile. Ai suoi tempi i media facevano il loro lavoro, oggi sono molto più ideologici. Non ci sono precedenti in termini di insulti e discredito della stampa. I media hanno le loro responsabilità: stando qui mi sono resa conto che i giornali e i network sono estremamente partigiani, al limite dell’opportuno.

Trump ha importato alla Casa Bianca il metodo “Apprentice”, il talk show che lo ha reso celebre in tutto il mondo. In pochi fra i più stretti collaboratori che un anno fa si sono imbarcati nella nuova amministrazione hanno visto il Natale. Qual è stata la defenestrazione più pesante?

Sicuramente, quantomeno a livello simbolico, quella di Steve Bannon. Il primo vero impatto si vedrà alle prossime elezioni di mid-term, dove i candidati di Bannon saranno posti in secondo piano. La prima rottura nel rapporto fra Trump e Bannon è stata la candidatura e la sconfitta di Roy Moore in Alabama. Non era il candidato di Trump, ma alla fine il presidente si è convinto a dare il suo sostegno. Il culmine della rottura è stata, ovviamente, l’uscita del libro “Fire and Fury”. Oggi l’ala più oltranzista ha perso posizioni all’interno della Casa Bianca e del partito repubblicano.

Anche con i leader repubblicani, come in campagna elettorale, non sempre il presidente ha trovato un’intesa. Chi oggi continua a puntare i piedi contro Trump, e chi invece è divenuto “trumpiano”?

L’unico che ancora alza la voce contro il presidente è il senatore John McCain. È un eroe di guerra, una colonna del partito, e inoltre sta conducendo una battaglia contro il cancro, dunque è difficile per Trump controattaccare. Lo speaker del Congresso Paul Ryan sta cercando invece di giocarsi la sua partita: rispetto alla campagna elettorale, oggi ha una posizione molto più laica verso Trump: si sbilancia a favore del presidente su battaglie repubblicane come quella contro il fisco, ma su quelle più controverse evita di esporsi.

Cosa è rimasto invece della base elettorale repubblicana?

Dalla vittoria di Trump nel novembre 2016 noi di Sky abbiamo girato l’America, non solo nelle grandi città, ma anche fra i cosiddetti “fly-over States”, quelli dove “ci si vola sopra e basta”, il cuore dell’America che ha portato Trump alla Casa Bianca. Queste persone non sono minimamente toccate da argomenti come il Russiagate, e con i grandi giornali ci incartano il pesce. Seguono Trump con grande interesse perché parla come loro, e sembra lontano dalle élites delle grandi metropoli. Alcuni fra i repubblicani delle grandi città invece, come New York, sono più titubanti, perché non apprezzano la denigrazione della carica presidenziale con la volgarità e le tipiche gaffes di Trump. Così come non amano le uscite di Trump sul clima, né tantomeno quelle razziste. La riforma fiscale però potrebbe convincerli a superare queste diffidenze.

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