L’economista Enrico Moretti (Università di Berkeley) scrive sul Sole 24 ore che “i contratti di lavoro unici e monolitici generano bassa crescita occupazionale, specialmente nelle Regioni a bassa produttività”. E propone “salari coerenti con le condizioni economiche territoriali o di stabilimento”. Così si alimenterebbe “il circolo virtuoso della buona produttività”.
Le sue affermazioni potrebbero sembrare scontate se non fossero rivolte ad un Paese in cui molte burocrazie sindacali da entrambe le parti continuano a difendere la prassi di un contratto nazionale “monolitico”. Intendiamoci. Nel settore del commercio, ove le unità produttive sono diffuse, ha senso una robusta cornice contrattuale nazionale con possibilità di deroghe aziendali. Ma in tutta l’industria e nel nuovo terziario è evidente la necessità di relazioni adattive di prossimità.
Le stesse definizioni di peius e melius rispetto a leggi e contratti nazionali non possono non applicarsi alla condizione soggettiva dei lavoratori piuttosto che al singolo istituto derogato e devono comunque riferirsi all’insieme dell’accordo aziendale o territoriale. Anche il salario contrattuale deve poter essere derogabile pur non potendo scendere al di sotto di una soglia minima che potrebbe essere indicata dai contratti o da una legge purché in una dimensione inferiore agli attuali livelli. Si pensi alle fasi di start up, specie in territori svantaggiati, o alla volontà di rimettere in gioco una parte del salario per collegarla ad obiettivi convenuti così da beneficiare di una tassazione più contenuta.
Nella prossima legislatura il governo dovrà sostenere con ben maggiore determinazione questa via negoziale riportando il livello di detassazione dei salari di prossimità quantomeno ai seimila euro disposti dal governo Berlusconi a partire dal 2008. Queste flessibilità negoziate possono ragionevolmente alzare tanto la produttivita del lavoro quanto la massa salariale complessiva per non parlare degli investimenti e dell’occupazione.