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Vi spiego chi è Roberto Maroni e perché il suo passo indietro vale come due passi in avanti

Sono passati 31 anni dall’ingresso in Parlamento dei due primi eletti della Lega Nord, Umberto Bossi e Giuseppe Leoni, che sbarcano a Roma Ladrona nella primavera del 1987, quando ancora Craxi, Andreotti e Forlani devono prendersi le misure per inventare il Caf. Lì nasce il rapporto tumultuoso tra il partito del Nord e la capitale, centrale “operativa” dei mille poteri obliqui e imperscrutabili. Un rapporto pieno di incomprensioni e litigi, che consuma decine e decine di carriere politiche partite nel migliore dei modi.
A tutto ciò fa eccezione l’uomo del giorno, cioè l’abile e solido Roberto Maroni, leghista doc che però era già a Roma, nello spirito, prima ancora che la Lega uscisse dalla culla per imbracciare lo spadone di Alberto da Giussano.

Maroni dal pedigree “nordista” ineccepibile, uomo capace di sopportare Bossi per due decenni e più, sempre pronto a rivendicare le ragioni della sua vocazione lombarda, ma perfetto come nessuno per reggere l’impatto con la feroce morbidezza romana.
Maroni pronto a farsi mandare dall’Umberto ai colloqui con Mariotto Segni (24 gennaio 1994) per stringere accordi che il Capo smentisce subito dopo, perché lui, il Maroni, è un soldato pronto a metterci la faccia quando serve (lo ha ribadito anche oggi). Maroni che da sempre è tra Silvio e Umberto, unico a non finire stritolato.

Torniamo al drammatico autunno del ‘94. Bossi si lascia convincere da Scalfaro (e da Borrielli): Berlusconi è morto e la Lega deve abbandonarlo al suo destino.
Maroni è ministro dell’Interno da pochi mesi e compie il primo dei suoi tanti capolavori di equilibrismo: sceglie di stare con il Cavaliere ma senza rompere con Bossi (a parte qualche mese di rapporti gelidi). I fatti gli danno ragione e mese dopo mese, anno dopo anno, Silvio e Umberto tornano amici e nel 2001 vincono insieme le elezioni.
Maroni è leghista, federalista, a tratti autonomista.

Però siede sulla poltrona di ministro dell’Interno (2008-2011) con la naturalezza con cui Bolt corre verso il traguardo, guidando il ministero più centralista che c’è nella Repubblica (con i suoi prefetti che sono i nemici giurati di leghisti piccoli e grandi in tutte le province del nord). Roma lo accoglie e lo venera, con quella sua ruffiana capacità di far sentire tutti a casa senza dare la cittadinanza a nessuno. Lui sta al gioco e conosce tutto e tutti, mettendo piede nei ristoranti e nei salotti. Ci va, con moderazione, senza averne paura ma senza farsi fagocitare, presente il giusto, presenzialista mai. Gioca di tacco e punta: non vende l’anima al diavolo, non resta fuori dai giochi.

I tre anni del Viminale sono il suo capolavoro: qual Palazzo, che tutti pesa al grammo e tutti passa ai raggi X, lo ricorda con stima e rispetto, mentre di solito fa poltiglia di quasi tutti gli inquilini.
È il segno più tangibile della forza di Maroni: uomo del nord che sa stare al governo e sa stare a Roma come nessuno dei suoi compagni di strada. Arriviamo così alle decisioni di queste ore.

Dopo cinque anni da governatore molla il colpo, sorprendendo molti. Lo fa in sintonia con il Cavaliere, un po’ meno con Salvini, ma anche qui senza rompere con il suo segretario, che infatti fatica a trovare parole di critica (che vorrebbe tanto pronunciare). Molla il colpo senza nulla chiedere, sapendo però che molto probabilmente ci sarà bisogno di lui, perché governare non è un mestiere che s’improvvisa.
Lo ha detto oggi con parole di pietra: “sono a disposizione”, ripetute più volte. Dal 5 marzo ci sarà da fare un governo e non sarà una passeggiata di salute. Adesso Maroni è più forte che mai, proprio come quelli che sanno fare un passo indietro per poterne fare due avanti.

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