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Xi senza limiti, anche nella Costituzione cinese

Xi Jinping

Il Comitato centrale del Partito comunista cinese ha proposto di iscrivere nella Costituzione le teorie del segretario generale Xi Jinping. Si tratta del rafforzamento definitivo della posizione del presidente, che già a ottobre dello scorso anno, durante il 19esimo Congresso del partito, aveva visto il politburo inserire la sua dottrina – la New Era – in quelle fondamentali del pensiero del Pcc; in quell’occasione l’Economist lo definì “l’uomo più potente del mondo”, e non solo perché le sue visioni entravano tra quelle che ogni funzionario cinese doveva studiare, una sorte toccata in precedenza soltanto a Mao e Deng Xiaoping, ma per il ruolo globale (durante il congresso, d’altronde, Xi promise di aumentare l’influenza globale della Cina e di rimodellare a vantaggio cinese la governance globale).

Nella nota diffusa al termine della seconda plenaria tenutasi a Pechino venerdì, il Comitato ha discusso per la prima volta dal 2004 gli emendamenti da apportare alla carta costituzionale, incorporando “il pensiero sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, distillato delle teorie di Xi: “Una proposta del Comitato centrale sulla revisione della Costituzione è stata adottata nella riunione” dicono i media di stato.

Xi non è soltanto il presente della Cina, ma rappresenta quel che il Dragone sarà nei prossimi anni: la modifica della Carta è un passaggio che tatua il nome del presidente – eletto dal Congresso per un mandato di altri cinque anni – sul futuro del paese. Pechino sta diventando una potenza globale, lo rimarca anche l’editoriale d’apertura del People’s Daily, il giornale del popolo, organo di propaganda ufficiale del partito, che dice: “Il mondo ha bisogno della Cina, in quanto tutti gli esseri umani vivono in una comunità con un futuro condiviso […] Ciò crea ampio spazio strategico per i nostri sforzi per sostenere la pace e lo sviluppo e ottenere un vantaggio”. Ma Xi si sta intestando l’affare globale anche muscolarmente: pochi giorni fa è apparso davanti a migliaia di soldati per chiedere loro un giuramento di sangue in difesa della patria, dei suoi valori, dei suoi interessi.

Il feedback per il momento sembra straordinario: il rafforzamento interno viaggia parallelamente ai successi. L’economia cinese è in pieno boom da decenni, ma dopo un calo costante dal 2010, per la prima volta nel 2017 è tornata a salire: 6,9 per cento è il numero che batte il 6,7 dell’anno precedente e centra il previsionale di Pechino (anche se ci sono polemiche che riguardano i dati delle economie locali, che correlati danno il valore totale, e che sembrerebbero alterati, spiega il New York Times).

L’obiettivo è superare l’economia americana entro il 2030, mentre l’amministrazione Trump pensa alle armi da usare nella guerra commerciale che ha scelto di ingaggiare – primo step, forse, l’inserimento di dazi sull’acciaio, poi subito la protezione della proprietà intellettuale – con lo sbilancio commerciale Usa/Cina che nel 2017 è cresciuto, nonostante la Casa Bianca lo abbia fissato in cima tra gli impegni internazionali. “Il ritiro americano” è visto come un momento per aumentare l’influenza della Cina nel mondo, sottolinea nella sua newsletter l’esperto Bill Bishop, e la politica America First è uno dei trampolini che ha indotto Pechino a spingere ancora di più sull’acceleratore. “Making China Great Again”, titolava un saggio del New Yorker di qualche tempo fa, parafrasando (non senza scherno) uno dei claim storici della campagna elettorale trumpiana.

Bishop ricorda che quell’editoriale sul giornale del partito di questa settimana (firmato dallo pseudonimo “Manifesto”) ha un titolo eloquente che si può tradurre in “strettamente aggrappato al periodo molto promettente dell’opportunità storica”: nel testo si scrive che “stanno emergendo gli svantaggi dei sistemi politici ed economici guidati dal capitalismo; il sistema di governance globale sta vivendo profondi cambiamenti e sta prendendo forma un nuovo ordine internazionale”.

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