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Chi è Serkan Golge e perché fa litigare Stati Uniti e Turchia

Erdoğan erdogan

“Gli Stati Uniti sono molto preoccupati per la sentenza di condanna dell’8 febbraio, pronunciata, senza prove credibili, contro il cittadino americano Serkan Golge, accusato di essere membro di un’organizzazione terroristica”. Così la portavoce del Dipartimento di Stato Usa Heather Nauert ha commentato la condanna a sette anni e mezzo di prigione dello scienziato della Nasa dal doppio passaporto turco/americano, per sospette attività di spionaggio e terrorismo.

Golge è l’ultimo nome nelle liste di prescrizione ordinate da Erdogan. Il quale, forte della popolarità conferitagli dal fallito colpo di Stato del luglio scorso, ha da un anno e mezzo dato inizio a delle operazioni di epurazione senza precedenti. I numeri, impressionanti, raccontano di 50.000 arresti e più di 110.000 licenziamenti di funzionari pubblici e ufficiali militari per presunti legami con il movimento illegale di Fethullah Gulen.

Il ricercatore turco/americano, che studiava gli effetti della permanenza prolungata nello spazio sulla salute, era stato arrestato mentre trascorreva le vacanze in Turchia, pochi giorni dopo il 15 luglio. La causa sarebbe il ritrovamento nella sua abitazione di una banconota da un dollaro, considerata dalle autorità turche il segno distintivo di appartenenza all’organizzazione di Gulen.

Golge è uno dei dodici cittadini americani che attualmente riempiono le carceri turche. Tra questi troviamo anche un missionario cristiano che viveva in Turchia da 23 anni e un professore di chimica della Pennsylvania, fermato insieme al fratello agente immobiliare.

Finora, gli appelli di Trump e del vice presidente Pence per il rilascio dei prigionieri sono stati vani. Sembra ormai chiaro che Erdogan intende usare i prigionieri americani come pedine di scambio per l’ex alleato e ora nemico giurato Fethullah Gulen, da cui non ha mai smesso di sentirsi minacciato.

Lo scorso ottobre la tensione era salita quando le autorità turche avevano preso di mira un cittadino turco dipendente dell’Ambasciata americana a Istanbul, anche lui accusato di simpatie guleniste. Washington aveva risposto interrompendo il rilascio di visti per i cittadini turchi, ripreso solo un mese dopo.

Quello di giovedì è solo l’ultimo dei colpi bassi che Ankara rifila al suo alleato dal luglio 2016, cioè da quando Erdogan si è convinto che gli Usa fossero al corrente del piano per rovesciarlo. Il sospetto è divenuto poi certezza di fronte al rifiuto della Casa Bianca, espresso a più riprese, di riconsegnare alle autorità turche Fethullah Gulen, l’imam da anni in esilio volontario negli Usa che Ankara ritiene essere il mandante del fallito colpo di stato.

La tensione è aumentata ulteriormente nel dicembre scorso, quando Ankara ha annunciato ufficialmente che il secondo esercito Nato acquisterà dalla Russia il sistema anti-aereo S-400, che non solo non si può integrare con i sistemi Nato, ma che a Bruxelles temono possa addirittura essere utilizzato dai Russi come cavallo di troia per ottenere intelligence sui dispositivi dell’Alleanza atlantica.

Infine, ultima in ordine di tempo, è venuta la pericolosa escalation sul territorio Siriano. L’ operazione Ramo d’Ulivo, con cui Erdogan ha rotto gli indugi e ha dato inizio alla resa dei conti con i Curdi attaccando l’enclave curdo-siriana di Afrin, in mano alle unità di protezione popolare (YPG). Dovessero le truppe filo-turche decidere di muovere a est verso Manjib, e varcare quindi l’Eufrate, c’è il pericolo di uno scontro con le truppe Usa presenti in quella regione.

Il quadro generale suggerisce quindi che quella degli arresti è solo l’ultima freccia nella faretra turca per forzare l’estradizione dell’arci-nemico Gulen. Sinora, la reazione americana si è limitata a vari appelli per il rilascio e a poche schermaglie burocratiche. Tuttavia, l’attuale inquilino della Casa Bianca, che ha fatto dell’orgoglio nazionale una cifra distintiva della sua politica estera, potrebbe presto stancarsi dei ricatti di Ankara e passare a qualche azione più incisiva.

In questo senso, il braccio di ferro in Siria potrebbe rivelarsi decisivo per far salire la temperatura sull’asse Turco/Americana e trasformare la guerra fredda che si consuma tra Ankara e Washington da ormai quasi due anni in un conflitto che, seppur territorialmente limitato, sarebbe caldissimo, e avrebbe conseguenze destabilizzanti non solo per il quadrante mediorientale, ma per gli equilibri dell’intera Alleanza Atlantica.



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