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Digitale e ricerca, il (poco) futuro dell’Italia nei programmi elettorali

digitale innovazione

Se l’attuale campagna elettorale solo marginalmente si è giocata su contenuti e proposte di policy, il fisco e l’immigrazione hanno saturato quasi del tutto l’attenzione ai programmi dei diversi partiti. Non fanno eccezione l’innovazione e la ricerca, anche se da questi temi passa il crocevia verso il futuro di qualsiasi Paese, Italia inclusa.

Eppure, andando a guardare le proposte delle diverse liste, non mancano i riferimenti a temi come la digitalizzazione, la ricerca & sviluppo e l’università, uno dei principali attori del sistema pubblico dell’innovazione. Certo, spesso e volentieri non stiamo parlando di visioni organiche o di piani approfonditi, tuttavia gli spunti per farsi un’idea e magari scegliere di votare in un modo piuttosto che un altro non mancano.

Se sono in tanti, se non tutti, a promettere un aumento del finanziamento pubblico alla ricerca e alle università, ci sono in alcuni casi idee del tutto contrapposte sull’allocazione delle risorse.

Liberi e Uguali dichiara ad esempio che “in Italia non si ha bisogno di pochi centri di eccellenza, o di pochi superprofessori ma di una qualità elevata, diffusa su tutto il territorio nazionale, isole comprese, di didattica e ricerca, e di molti buoni professori”. Linea sulla quale si colloca, sia pure con una sfumatura meno estrema, il Movimento 5 Stelle, che nel programma Università e Ricerca, confezionato con largo anticipo rispetto alle elezioni, dopo essersi soffermato criticamente sullo “sbilanciamento qualitativo degli atenei”, sottolinea che “la ricerca dell’eccellenza non può essere perseguita attraverso un’assurda gara per ottenere ciò che lo Stato dovrebbe invece assicurare a tutti gli atenei”. Un approccio egualitaristico il cui stretto complemento è una forte critica all’attuale sistema di valutazione, imperniato sull’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (Anvur).

Se il Movimento 5 Stelle si limita a volerne “ridimensionare le competenze, le funzioni e i costi” nonché ad auspicare “una profonda revisione dei criteri bibliometrici e dei parametri stabiliti” dall’Agenzia, Liberi e Uguali sembra inciampare su un’apparente contraddizione. Da questo punto di vista, infatti, intende “abolire l’Anvur o ridefinirne dalle fondamenta il mandato per un’agenzia della valutazione con un governo partecipato dalla comunità scientifica e garanzia di autonomia dalla politica”, salvo poi “riportare la programmazione strategica a scelte di governo del sistema e non a parametri automatici basati su criteri tecnocratici”. Rimane dunque da vedere come l’autonomia dalla politica potrebbe conciliarsi con la natura pienamente politica e non più tecnocratica della stessa Agenzia.

Una visione del tutto opposta è alla base del programma del Partito Democratico – che naturalmente difende l’attuale sistema e  invoca maggiori finanziamenti, destinati al Fondo Ordinario per le università e al “reclutamento strutturale e continuativo di 10 mila ricercatori di tipo B nei prossimi 5 anni” – ma soprattutto di quello di + Europa. La lista guidata da Emma Bonino afferma meritocraticamente che “le università migliori, individuate secondo parametri che includano la quantità e la qualità della produzione scientifica e valorizzino la reputazione acquisita tra gli studenti – devono beneficiare di maggiori risorse, mentre le università peggiori andranno penalizzate”. E, al contrario di Liberi e Eguali che si batte contro il precariato, chiede la stabilizzazione dei finanziamenti alla ricerca (“riuscire a garantire ogni anno un bando PRIN”) più che dei ricercatori. Nel mezzo si colloca la Lega che vorrebbe mandare in soffitta l’attuale modello di ricercatore a termine per sostituirlo con una figura “senza limiti di proroghe, soggetto a periodiche valutazioni”.

Paradossalmente, si registra un’ampia convergenza su un modello di governance basato su un’Agenzia della ricerca unica (Movimento 5 Stelle, PD e Più Europa), superando l’attuale frammentazione tra una miriade di enti pubblici o comunque attribuendo a un “Ministero ad hoc o a un Comitato interministeriale di Programmazione della Ricerca (Cipr, con funzioni e prerogative equivalenti al Cipe) le responsabilità di indirizzo strategico e di coordinamento sia per il sistema universitario che soprattutto per la ricerca” (Liberi e Uguali).

Passando al digitale, è sempre il tema della governance a stimolare convergenze a volte inaspettate, come quella tra i programmi della Lega Nord e del Movimento 5 Stelle. Entrambi vorrebbero accorpare tutte le funzioni legate al digitale, la prima dando vita a una super Autorità delle Comunicazioni, il secondo a “un nuovo soggetto nel prossimo Governo che semplifichi la governance digitale”. D’altronde, il digitale è uno dei pochi ambiti a unire anche Pd e Lega, che puntano massicciamente sulla digitalizzazione della cultura e del turismo. Il partito guidato Matteo Renzi arriva a proporre un “Piano Cultura 4.0 per le imprese culturali e creative che investono in innovazione tecnologica, con particolare attenzione alle aree ad alto tasso di abbandono scolastico e al Mezzogiorno”. Si tratta di un progetto che si pone sulla scia del Piano Impresa 4.0, il principale programma di politica industriale dell’ultimo decennio, fortemente rivendicato sia dal Pd che da + Europa, che vorrebbero passare a una fase 2 (come quella auspicata da Calenda e Bentivogli, che sul Sole 24 Ore dello scorso 12 gennaio hanno lanciato un Piano industriale per l’Italia delle competenze, diventato parte integrante del programma della lista di Emma Bonino).

Il modello di Industria 4.0 non trova però solo proseliti sul terreno elettorale. La Lega, che pure ne coglie le opportunità, promuove la tassazione sui robot (una proposta avanzata qualche tempo fa anche da Bill Gates), il cui gettito servirebbe a “mantenere gli standard di welfare, a formare i vecchi e i nuovi lavoratori e a sostenere le piccole e medie imprese nel rinnovamento dei loro processi produttivi”. Non è dato sapere se questa nuova forma di tassazione venga proposta in ambito italiano, europeo o mondiale. È infatti evidente che, se si limitasse solo alla nostra giurisdizione fiscale, finirebbe per penalizzare non solo i robot (e chi li produce) ma anche lavoratori e consumatori, che si troverebbero a fronteggiare una nuova zavorra competitiva. La solita promessa elettorale sollevata più per segnare un punto che per condurre a una realizzazione concreta? Lo scopriremo dopo il 4 marzo, nel futuro (molto) prossimo italiano.


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