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La Francia cerca di aggirare le sanzioni contro l’Iran. Il precedente dell’Italia

“Ci stiamo preparando molto, dal 2017, e continuiamo a lavorare ogni giorno sulle condizioni del nostro ingresso in Iran”, ha detto Nicolas Dufourcq, amministratore delegato di Bpifrance, Banque publique d’investissement, banca di investimenti francese di proprietà statale. Dufourcq ha spiegato che Parigi sta elaborando l’idea (ossia: studiando gli estremi operativi) per aprire credito a Teheran utilizzando strumenti “euro-dominati” che garantirebbero credito sul commercio di prodotti Made in France. È la via migliore per evitare il dollaro, moneta del commercio globale che però potrebbe far finire il business con l’Iran sotto la scure dei prolungamenti extraterritoriali delle restrizioni americane che da maggio — quando il piano di Parigi dovrebbe essere operativo — potrebbero rientrare in funzione se il Congresso non fornirà a Trump una revisione più dura dell’accordo sul nucleare iraniano.

Quello della sovrapposizione delle restrizioni americane con gli affari di Bruxelles è diventato un (logico) cruccio europeo, che si è già materializzati nelle proteste esplicite collegate alle nuove sanzioni che Washington ha applicato contro la Russia, facendo finire nella rete anche società europee che hanno accordi d’affari con entità russe. La Francia vuole evitare questa situazione e proteggere i suoi interessi, perciò sta costruendo il sistema migliore per poter aprire la propria economia al tesoro iraniano, sbloccato dalla chiusura del deal atomico e dalla conseguente eliminazione tecnica della sanzioni internazionale (si scrive “tecnica”, perché, appunto, le banche americane nonostante il sollevamento de facto delle misure di restrizione precedenti al deal, continuano a essere timide sulle aperture di linee di credito agli ayatollah e questo ha fatto sì che anche altri istituti privati non americani copiassero lo stesso atteggiamento).

La decisione francese è destinata a essere una di quelle che farà infuriare il presidente americano Donald Trump, che ha cercato fin dall’inizio della sua campagna di descrivere l’accordo chiuso per pressante volontà dell’amministrazione Obama (che nel Nuke Deal ha fissato uno dei capisaldi della sua legacy internazionale) come uno dei peggiori della storia. Secondo Trump, aprirsi all’Iran era ed è prematuro, perché indipendente dal temporaneo congelamento del programma nucleare – sul quale comunque ci sono anche posizioni scettiche – Teheran sta conducendo una politica aggressiva ed espansionistica in Medio Oriente, basata anche sull’anti-americanismo (e anti-occidentalismo).

Nella volontà di Trump, che ha già compiuto le prime mosse per tirare indietro Washington dal deal, c’è creare un presupposto per sfasciare l’intesa e avviare un confronto aperto contro l’Iran. Ma l’accordo è stato siglato da un meccanismo internazionale (noto come “5+1”) e ha valore multilaterale, dunque l’azione americana rischia di essere monca, anche perché le controparti europee hanno da sempre – fin dai primi claim elettorali di Trump – dichiarato che il deal con Teheran è un progresso verso la stabilità e l’unica soluzione possibile applicabile per non far diventare la Repubblica islamica un’altra Corea del Nord.

Ora la mossa di Emmanuel Macron – che sta organizzando il suo viaggio d’affari in Iran e sta già da tempo facendo uscire informazioni propedeutiche – è un ulteriore passo che marca una postura completamente diversa sul dossier Iran tra Washington e Bruxelles. L’Europa, la Francia, non solo richiama Trump alla responsabilità di mantenere in piedi l’accordo con l’Iran, ma esce dalla linea retorica e manda un messaggio concreto a Washington: gli Stati Uniti sono solo una parte, il deal, e soprattutto la riqualificazione iraniana conseguente (e gli affari), può andare avanti anche senza di loro.

C’è in ballo, per esempio, un gasdotto da un paio di miliardi di euro e diversi contratti commerciali che Macron potrebbe chiudere di persona durante la sua visita; mentre Total e Renault hanno da subito iniziato a muoversi, sfruttando l’influenza costruita nel paese prima che gli ayatollah dettassero il programma atomico che ha isolato l’Iran (la Francia ha anche una storia aperta con vicende del genere: nel 2014 Bnp Paribas è stata multata per 9 miliardi di dollari per aver fatto affari violando le sanzioni americane contro l’Iran). Macron difende il proprio interesse nazionale anche su dossier critici come quello iraniano, e sfrutta le sue capacità nei negoziati bilaterali per portarsi avanti; Macron sta anche cercando di costruirsi come un pivot centrale in Medio Oriente come nell’Africa settentrionale, muovendosi anche tra gli spazi lasciati liberi dal ritiro americano.

Una fonte bancaria francese rivela alla Reuters che la Francia non è sola sulla volontà di creare uno schema US-free: anche “Italia, Germania, Austria e Belgio stanno lavorando a meccanismi che potrebbero proteggere le loro aziende dal rischio di sanzioni statunitensi”. Per esempio, all’inizio di questo mese, Italia e Iran hanno concordato un accordo quadro sul credito (Master Credit Agreement) per finanziare investimenti in Iran del valore di 5 miliardi di euro; l’accordo è stato firmato al Mef l’11gennaio dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e dal vice ministro dell’Economia iraniano Mohammed Kazaei; presenti i vertici di Invitalia e dell’omologa iraniana Oietai, il Ceo di Ific, la holding iraniana per gli investimenti esteri.

L’intera operazione è stata garantita dalla Banca centrale iraniana, che ha messo in campo Bank of Industry and Mine (banca pubblica controllata dal locale ministero dell’Industria) e Middle East Bank (piccolo istituto privato) per fare da schermo a Invitalia Global Investment (recentissimo veicolo finanziario creato dall’Agenzia per la promozione dello sviluppo economico, scelto da Roma anche perché lontano dai link statunitensi della Cassa depositi e prestiti).



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