Le elezioni politiche del 2018 verranno ricordate come quelle la cui campagna elettorale ha assunto maggiormente toni ideologici. Il volano è prodotto a livello europeo dalla forte intensità dei movimenti di destra, dalla legge elettorale e dal duro tripolarismo presente sulla scena nazionale.
Per quanto attiene alla complessa galassia del centrosinistra, è abbastanza chiaro che l’opposizione di Liberi e Uguali a Matteo Renzi è animata, oltre da lampanti antipatie personali, da assunti teorici estremamente differenti. Pierluigi Bersani ha giustificato, pochi giorni fa in TV, che la scelta della scissione è maturata quando la minoranza, allora interna al Pd, ha capito che il segretario non apparteneva più, o forse non era appartenuto mai, alla sinistra tradizionale.
Adesso, ad ogni buon conto, dopo il centrodestra e il M5S, è la volta di Renzi, che ha presentato a Bologna i punti salienti del suo programma politico.
Il primo aspetto della proposta riguarda la leadership. Per ragioni di derivazione statutaria, il Pd sa a priori chi sia il candidato premier, dato che tale figura coincide con il segretario politico. Più interessante è perciò andare a leggere i propositi da realizzare.
Prima di tutto è vantata l’esperienza di Governo della scorsa legislatura. In effetti, il Pd è stato il vero partito di maggioranza, malgrado gli avvicendamenti interni.
La crescita c’è, ma è solo all’inizio. Questa la sintesi.
La priorità cade così sul tema del lavoro. La presentazione si concentra sulla qualità delle professioni, contrastando l’assistenzialismo, prerogativa maggiore di sinistra e Grillini. Creare dunque posti di lavoro, valorizzare gli autonomi, rilanciare la politica industriale.
In secondo luogo, il taglio alle tasse. Al contrario della Flat Tax, il Pd sostiene la riduzione selettiva del fisco per famiglie con figli, con il reddito di inclusione e con la lotta all’evasione (già molto consistente, a dire il vero, almeno per i non milionari).
Quindi, terzo punto, investire sull’Italia: banda larga, lotta al dissesto idrogeologico, alta velocità, infrastrutture.
In aggiunta, università e ricerca, politica ambientale e idea del benessere diffuso.
Quest’ultimo punto segnala la svolta moderata del Pd, con un’attenzione non soltanto agli aspetti materiali ma anche alla salute, alle persone non autosufficienti, eccetera.
Di rilievo sono poi le politiche a favore della riforma della macchina pubblica, in parziale continuità con le mancate trasformazioni referendarie, e soprattutto la prosecuzione della decisa linea europeista intrapresa nella scorsa legislatura.
Quest’ultima idea, affine agli altri partiti socialisti, intende avanzare speditamente verso gli Stati Uniti di Europa, rafforzando ed estendendo le competenze dell’Unione come antidoto ai sovranismi della destra.
Da questo punto di vista, la strada del Pd non soltanto è tipica del riformismo moderato di centrosinistra, ma si contrappone in modo frontale non soltanto alla Lega ma anche a Forza Italia e a Noi per l’Italia.
Da un lato, infatti, il centrodestra opta prioritariamente per interesse nazionale, riduzione fiscale compatta e riforma sostanziale dell’Unione Europea, intesa in modo più o meno radicale, secondo i partiti; dall’altro invece qui si guarda alla riforma dello Stato, investimenti pubblici, detassazione graduale e maggiore europeismo.
In tal senso l’offerta del Pd è tipica di un centrosinistra temperato e di governo, differente rispetto ad un centrodestra in cui la spinta riformatrice di senso contrario appare più nitida e meno all’insegna della consuetudine.
Si può dire che il Pd punti sulla continuità per il progresso, mentre il centrodestra sulla discontinuità per la crescita.
Ad esclusione del M5S, nel cui programma vi è realmente tutto e il contrario di tutto (dal reddito assistenziale di cittadinanza, all’antieuropeismo, per finire alla strizzata d’occhio alle lobby finanziarie), la dualità centrodestra/centrosinistra rappresenta, in questa tornata elettorale, un bivio preciso tra due idee opposte dell’Italia e del mondo.
Tale dualità, insomma, riassume le due maggiori politiche democratiche del nostro tempo, non presentando pertanto condizioni particolarmente idonee per eventuali larghe intese post elettorali. Se, tuttavia, gli italiani dovessero rivelarsi col voto irriducibilmente divisi, in definitiva il bene della nazione dovrà necessariamente prevalere sul resto, pur restando fermo il fatto evidente che ciascuno rimarrà inevitabilmente ancorato alla propria esclusiva visione ideologica del mondo, difficilmente conciliabile con quella degli altri.