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Perché la credibilità è il vero jolly della politica estera. Soprattutto per l’Italia

Di Giampiero Massolo

Porre in termini problematici il rapporto dell’Italia con i “grandi” del mondo può non essere una buona idea: nasconde, a seconda dei casi, una banalità oppure un equivoco, dunque, comunque la si metta, è poco utile a rappresentare e perseguire in maniera costruttiva l’interesse del Paese. Da un lato, è evidente che, dal punto di vista dimensionale, l’Italia non può appartenere al club delle “grandi” potenze, trovandosi, peraltro, in compagnia della (quasi) totalità degli stati nazionali del pianeta. Della qualifica di “grande” non hanno pieno titolo a fregiarsi nemmeno tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma solo quei tre fra loro che, per peso demografico, militare, ed economico, nonché per estensione territoriale e per mix fra hard e soft power, sono “naturalmente” globali nella loro statura e nella loro proiezione esterna: Stati Uniti, Russia e Cina. Dall’altro, se questa è un’ovvietà, non sono affatto ovvie, anzi, sono molto fuorvianti, le conseguenze che spesso ne sono state tratte in talune rappresentazioni del nostro ruolo nel mondo. Non ne discende affatto, in particolare, che l’Italia sia condannata a una visione e a una percezione ristretta di se stessa e delle proprie aspirazioni.

È vero, infatti, che, diversamente dai “grandi”, possiamo individuare e perseguire i nostri interessi nazionali secondo una scala di priorità limitata e “mirata”, calibrata anzitutto su base geografica. Non siamo una grande potenza nel senso che non possiamo oggettivamente attribuire il medesimo peso e la medesima importanza alla stabilizzazione del Broader Middle East and Northern Africa e alla libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale, al contenimento delle riemergenti pulsioni nazionaliste nei Balcani e ai contenziosi territoriali in America Latina, al futuro dell’Europa e alla dialettica interna alle architetture multilaterali africane. Ciò semplicemente perché i fattori di crisi nel Mediterraneo e nei Balcani, così come l’evoluzione della costruzione sovranazionale europea, si riverberano in termini immediati sulla nostra sicurezza nazionale, sulle nostre possibilità di crescita economica, sulla nostra coesione sociale, laddove le convulsioni di altre aree geopolitiche possono certo incidere su taluni nostri interessi settoriali, anche rilevanti, ma non possono giungere a mettere a repentaglio la tenuta complessiva del Sistema Paese e delle sue istituzioni democratiche. In questo, appunto, ci distinguiamo dai “grandi”, che detengono, o sono per loro natura impegnati a impiantare e promuovere, interessi in ogni angolo del pianeta. Ma proprio per questo, nell’era delle interdipendenze globali, se davvero vogliamo un Mediterraneo più stabile, un quadrante balcanico aperto alla prospettiva europea, un’Europa che ritrovi lo slancio delle origini e sappia al contempo dare risposte moderne e convincenti alle attese dei suoi cittadini, è con i “grandi” che dobbiamo sapere interloquire, ora rafforzando il nostro sistema di alleanze, ora intessendo partenariati di mutua convenienza. E non basta più, a tale fine, il “teorema Mattei- Valletta”, l’idea di una politica estera come mera ancella delle ragioni dell’economia, ossia funzionale a garantire gli approvvigionamenti energetici e gli sbocchi alle nostre esportazioni.

Oggi più che in passato “tutto si tiene”. E specialmente il Mediterraneo, percorso da linee di fratture politiche, economiche, religiose, cruciale per la sua geografia nonché come corridoio energetico e migratorio, area di crisi e parimenti sbocco di conflitti che hanno origini lontane, spazio comune di incontro tra fedi e culture e insieme terreno nel quale nuovi attori non statali si confrontano con gli stati e fra loro, è cruciale non per i soli equilibri regionali, bensì per quelli globali. È una zona nella quale le potenze maggiori non possono non proiettare la loro influenza e le loro ambizioni: il Medio Oriente è destinato a rimanere centrale nella politica estera americana, a essere vitale quale cuscinetto di sicurezza (e potenziale incubatore di terrorismi) per la frontiera sudoccidentale russa, a configurarsi come propaggine commerciale e per ciò stesso geopolitica della Nuova Via della Seta cinese. Globale, dunque, per visione e per vocazione non può che essere, a sua volta, l’Italia nel “metodo” della sua proiezione internazionale. È, al riguardo, in quattro direzioni che va dispiegato il nostro rapporto con i “Grandi”. Non possiamo, per cominciare, sottrarci all’esigenza di alimentare e potenziare, nel mutato contesto internazionale, la scelta di campo occidentale e laica compiuta nel secondo dopoguerra. Europeismo, atlantismo e multilateralismo ne furono le architravi, che oggi mantengono inalterato il loro significato identitario e valoriale, a condizione che si prenda realisticamente atto dell’avvenuto passaggio da un paradigma di relazioni internazionali prevalentemente cooperativo a uno più competitivo, che impone di ripensare la nozione stessa di multilateralismo: nessun tavolo è più utile ed efficace in sé, per il solo fatto che esista e che ci si sieda attorno a esso. Ogni foro è piuttosto luogo di give and take, nel quale ciascuno stato riversa la propria reliability e fa valere la raggiera di rapporti bilaterali che sarà stato frattanto in grado di costruire. Sarà, dunque, utile ed efficace solo a condizione che tutti coloro i quali vi partecipano non siano troppo diversi o squilibrati fra loro nei galloni d’autorevolezza guadagnati sul campo.

Vi è poi l’esigenza di lavorare per promuovere i nostri interessi in uno scenario di sicurezza caratterizzato da minacce asimmetriche, ibride, che valicano quelle frontiere fisiche il cui presidio militare era bastevole all’epoca del mondo bipolare, ma oggi non lo è più. È impensabile mitigare l’esposizione al rischio terroristico, controllare l’emergenza migratoria, difendere gli assetti strategici e il patrimonio industriale, scientifico e tecnologico, tutelare l’integrità delle reti e delle infrastrutture critiche – in altri termini salvaguardare quel nucleo duro di interessi nazionali che non può non essere promosso a meno di arrecare danno all’intera collettività – se non rimanendo fortemente ancorati alla scelta atlantica, ricercando denominatori comuni solidi con i nostri partner europei, attenendoci a una accorta combinazione di fermezza e dialogo con quei grandi player che, pur non appartenendo al novero delle liberaldemocrazie occidentali, possono comunque stabilire con noi convergenze specifiche su priorità condivise, oppure vanno compresi, e conseguentemente contenuti, nelle loro posture ostili sul terreno non convenzionale.

Serve inoltre un cambio di mentalità per quel che riguarda la nostra partecipazione alle diverse organizzazioni multilaterali. Non basta più farne parte per contare davvero. Non è più sufficiente la semplice rendita di posizione geografica, è necessario assumersi le proprie responsabilità, senza sottrarsi alle hard choices da “adulti”. Non è più possibile essere i migliori amici di chiunque, “equivicini” in ogni situazione di conflitto, dialoganti per antonomasia, campioni della cooperazione. Decisioni apparentemente indigeste o audaci, che magari un tempo avremmo volentieri schivato, oggi possono rivelarsi essenziali per preservare la nostra credibilità e per rimanere sostanzialmente, e non solo nominalmente, affidabili agli occhi degli alleati. L’importante, ed è la quarta dimensione del nostro sapere stare fra i “grandi”, è poter contare sul sostegno dell’opinione pubblica e parlamentare, che va guadagnato sul terreno della trasparenza, della credibilità e dell’efficacia argomentativa. Non è nuovo lo iato fra le iniziative di politica internazionale e le effettive dimensioni e capacità della società italiana: poco disposta a sostenere con cognizione di causa le nostre azioni di politica estera, incline a dividersi fra opposte propagande e semplificazioni, poco propensa ad accettare i costi di proiezioni militari “fuori area” che non siano di peacekeeping puro, disattenta ai temi della geopolitica, internazionalizzata a tutti i livelli e ambiti, sì, ma spesso inconsapevolmente, eccezion fatta per segmenti ristretti di cittadinanza avvertita e contigua alla classe dirigente. Ma capace anche di unirsi, e di riscoprire la nozione di patria e il suo inestimabile significato. È bene che ciò avvenga non sporadicamente, sull’onda emozionale di eventi drammatici, ma in virtù di una consapevolezza diffusa, sistematicamente incoraggiata, degli oneri che il mondo ci impone di fronteggiare, e anche dei correlati vantaggi che possono derivarci da una politica estera “responsabile”.

Il nostro profilo euro-atlantico va dunque corroborato giorno per giorno. Anzitutto sul versante del rapporto forte con gli Stati Uniti e della solidarietà alleata. Sarebbe superfluo, a tal proposito, soffermarsi soltanto sul ben noto disorientamento che la presidenza Trump continua a provocare. È assai più utile tenere a mente che il tessuto connettivo di interazioni e cointeressenze, fitto, strutturale e capillarmente ramificato, cucito nei quasi 70 anni e negli oltre 60 che ci separano rispettivamente dal Patto Atlantico e dai Trattati di Roma, non potrà essere disfatto né dalla temporanea biforcazione della leadership statunitense fra un’amministrazione che twitta e una che lavora, né dal carattere parentetico della formale appartenenza britannica all’Unione Europea.

Donald Trump compirà la sua parabola, ma i rapporti transatlantici sono una necessità che resta. Vanno al di là di ciò che li abbraccia nella dimensione overarching, vale a dire l’ordine liberale mondiale che nessun protezionismo potrà scardinare e l’ombrello nucleare che nessuna cooperazione europea potrà sostituire, e sono alimentati da ben più che i pur intensi e imprescindibili legami commerciali. Sono la nostra fisionomia, il nostro stare al mondo, la weltanschauung che ci accomuna. Senza contare, ed è un dato di grande momento, che l’America di Trump è sì, first, ma non per questo vuole rimanere alone. Intanto perché, al netto di una maggioranza risicata in Congresso e delle incognite sulle elezioni di mid term, egli si sta dimostrando più repubblicano di quanto si credesse inizialmente, con i successi di politica fiscale e di deregulation economica, con una Corte Suprema dalla sua parte, con gli annunci su cli- ma, Iran e Gerusalemme, con la sconfitta militare di Isis nell’ex Syraq e la contestuale determinazione a non ripetere gli errori del passato in Iraq, con la fermezza a fronte delle derive iraniane che persino i più severi fra i suoi critici d’orientamento liberal hanno riconosciuto e apprezzato.

E poi perché è all’Europa che – al di là del dogma del 2% – la dottrina strategica appena varata a Washington offre il duplice ruolo di principale interlocutore per affrontare le sfide globali e di partner privilegiato della sua azione nel mondo. Cioè: si opera la dovuta distinzione fra una vera alleanza, cementata da valori comuni e da una concorde visione del mondo, e i semplici partenariati, guidati da interessi specifici. I contenuti analitici sottostanti alla nuova strategia Usa non rinnegano affatto l’opportunità di promuovere dialogo e partnership con Cina e Russia, ma ne limitano la portata in ragione della reale natura di quei due player, descritti come competitori strategici che vogliono rimettere in discussione l’intero ordine geopolitico globale. Attori con i quali si può e si deve parlare, poiché è impossibile ignorarne esistenza, peso e ambizioni, ed è doveroso accettarne il ruolo: ma, per l’America, l’alleanza è un’altra cosa, è quella con l’Europa, e continua a postulare il riconoscimento pieno della centralità della Nato nell’architettura di sicurezza che unisce le due sponde dell’Atlantico.

La firma di Trump in calce a questi contenuti non ne inficia la portata. Anzi. È una firma che è stata apposta e che rimarrà, quali che siano i futuri sbocchi del Russiagate. E dimostra – forse involontariamente, ma poco importa – che la comunità euro-atlantica si rivela comunque più forte delle sollecitazioni interne (ossia dello stesso Trump) ed esterne, visto che sa decifrare bene le caratteristiche degli altri “grandi” con i quali è chiamata a misurarsi. Basti ricordare, a riprova, che il mondo è molto meno “al rovescio” di quanto possa apparire a prima vista, che sono stati i Sette di Taormina, non la Cina di Obor né la Russia del nuovo complesso militar-industriale, a ribadire il valore del libero commercio, pur con la condizione che sia equal and mutually beneficial. Spetta all’Europa, e all’Italia nel suo contesto, rafforzare la gamba europea dell’Alleanza. Dal punto di vista nazionale, essere “saldi” per permanere nell’Unione con autorevolezza è ben più importante che guardare ai futuri, o futuribili, assetti istituzionali della costruzione comunitaria. Un’evoluzione in direzione federale non è nell’ordine delle cose, almeno in questa fase storica l’Europa è destinata a rimanere una federazione di stati sovrani. Parimenti remote appaiono modifiche radicali ai Trattati.

Non vi è la necessaria unanimità di consensi, e comunque un nuovo accordo ricostruttivo dell’Ue non reggerebbe alle procedure di ratifica, diversificate negli Stati membri. Del resto, i Trattati vigenti sono anche un efficace antidoto alla disgregazione e all’anarchia, dalle quali a trarre profitto sarebbe inevitabilmente il più forte e il più veloce a ripristinare l’ordine, o almeno a regolare il caos, a detrimento dello status di tutti gli altri.

Più che di sviluppi improbabili, dobbiamo preoccuparci, per rafforzare l’Europa, di rafforzare noi per primi la nostra credibilità, che l’Europa si aspetta e della quale ha assoluto bisogno, essendone l’Italia membro di rilievo “esistenziale”, oltre che seconda manifattura continentale too big to fail. Ciò anche tenuto conto che l’alternativa più realistica all’ingegneria istituzionale risiede non tanto nelle cooperazioni rafforzate, quanto nelle dinamiche intergovernative che plasmeranno i rapporti interni al nucleo duro, franco-tedesco, dell’Unione.

Le prime avrebbero un senso nella misura in cui non si di-scostassero eccessivamente dalla geometria a nove prevista dai Trattati di Amsterdam e Nizza, altrimenti, ed è il rischio che corre la PeSCo, si finirà con l’aggiungere cerchi ulteriori ai tre – il mercato unico a 27 post Brexit, l’Eurozona a 19 e Schengen a 22 – che esistono già con il loro valore aggiunto, ma anche con il loro carico di criticità e incompiutezze. Le seconde determineranno, invece, dove davvero andrà l’Europa, a cominciare dalla comunitarizzazione del Fiscal Compact, da considerarsi acquisita, e dall’imminente, arduo negoziato sulla riforma dell’Unione Economica e Monetaria e sul futuro Quadro Finanziario Pluriennale. È eloquente, sul punto, come vada prendendo corpo un mercato unico franco-tedesco con regole e norme comuni sancite bilateralmente, e intese a disciplinare ambiti nevralgici dell’integrazione economica. Sebbene la Merkel abbia dovuto faticare più che in passato per formare un nuovo governo e la visione di Macron sull’avvenire dell’Eurozona sia stata, almeno sin qui, divergente da quella di Berlino, si è delineato all’orizzonte un nuovo Trattato franco-tedesco che confermerà l’asse fra le due capitali nella sua connotazione di perno intorno al quale ruoterà il futuro dell’Unione.
Di conseguenza, molto, per noi, dipenderà da come sapremo coltivare sul piano bilaterale i nostri rapporti con la Germania e con la Francia.

Alla prima siamo legati da un forte rapporto strutturale, imperniato sulla continuità e omogeneità del tessuto produttivo che unisce il suo sud al nostro nord, facendo di quella sorta di “macroregione” il cuore pulsante dell’economia europea e una delle più ricche al mondo per reddito pro capite. Berlino rimane, e senz’altro rimarrà ora che la fase di stallo politico interno ha infine trovato il suo sbocco in una nuova Grosse Koalition, il nostro principale alleato, con il quale registriamo convergenze profonde e durature su tutti i maggiori dossier internazionali, a eccezione della (non attuale) riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. È un patrimonio: dissiparlo a causa delle nostre fragilità di finanza pubblica sarebbe, oltre che un errore madornale, anche del tutto inutile, visto che nessuna forza politica di quel paese accetterà mai l’idea che i soldi dei contribuenti tedeschi vadano a finanziare i ritardi e le inefficienze altrui.

La Francia è espressiva della più solida fra le leadership continentali, quella di Macron, in questo momento forte di un consenso popolare elevato, oltre che destinatario di aspettative crescenti che potrebbero anche venire disattese. E noi con Parigi siamo, allo stesso tempo, complementari e concorrenziali. Condividiamo le medesime aree di proiezione geopolitica e le stesse tipologie di manifattura industriale. Ma a fare la differenza è il sistema istituzionale francese, dimostratosi efficace nell’assorbire il crollo dei partiti tradizionali, e soprattutto costruito per potenziare il decision making al centro e per smorzare gli appetiti dei portatori di interessi periferici o settoriali. Là dove, da noi, l’interesse generale è succube dei particolarismi, oltralpe prevale e si impone con cogenza condivisa.

Dipenderà da noi, dalla nostra capacità o incapacità di fare sistema, se ad avere la meglio, nel rapporto con Parigi, saranno le cointeressenze oppure le tentazioni acquisitive francesi a nostro danno. Frattanto, occorre la capacità di leggere e comprendere appieno gli interessi francesi, al fine di stimolarne comunanze proficue in sede Ue con i nostri. Ne abbiamo bisogno. Se non altro, perché tra la Francia e il nuovo Governo di coalizione tedesco potrebbero a breve maturare nuove sintonie, sui temi migratori e di governance dell’Eurozona, non necessariamente collimanti con i nostri desiderata.

È importante, quindi, cogliere sino in fondo l’occasione del nuovo, ambizioso trattato bilaterale italo-francese, approfittando della finestra de jure condendo apertasi per i prossimi mesi, onde articolare – venendo incontro, con criteri di vicendevole vantaggio, agli stessi auspici transalpini – il rapporto fra Roma e Parigi in termini complementari a quella relazione franco-tedesca che costituirà il nucleo duro di una “nuova Europa” nella quale dovremo per forza di cose preservare lo standing che ci compete.

Ciò, naturalmente, dimostrandoci all’altezza delle aperture di credito che proprio in chiave europea ci vengono riservate. E a tale scopo, decisioni quale quella di inviare i nostri militari in Niger vengono lette dai nostri partner come indicatori della nostra affidabilità, e in quanto tali meritano di essere spiegate all’opinione pubblica. È bene che i nostri cittadini siano consapevoli che non è concepibile né un’Italia senza Europa, né un’Europa senza Italia, e che perciò in Europa dobbiamo “sapere stare”.

Tanto più che dipenderà in ogni caso da noi, e anche a valle dei nostri rapporti con Berlino e con Parigi, il grado e la qualità del sostegno che l’Europa ci accorderà. L’Ue non è né madre né matrigna, ma è illusorio sperare in una solidarietà economica da parte sua volta a supplire in toto alle nostre mancanze, o addirittura più ampia di quella già tradottasi nelle note, importanti concessioni in termini di flessibilità. Anzi, i segnali vanno in senso contrario: la proposta di direttiva per il recepimento del Fiscal Compact, presentata il mese scorso, limita le deroghe alle regole del six pack alle circostanze eccezionali, e alle sole riforme con un impatto positivo e diretto sui conti.

L’Europa continuerà a essere il nostro benchmark di riferimento, ma il suo sostegno e i suoi interventi perequativi saran- no sempre più condizionati alla nostra capacità di meritarceli. Sappiamo quello che bisogna fare: riforme incisive per accrescere la produttività delle nostre imprese, la cui inadeguatezza è la radice di tutti i nostri mali; un assetto istituzionale più moderno che favorisca l’efficacia dell’azione di governo; la promozione delle sinergie inter-istituzionali necessarie per fare sistema scardinando la resistenza delle strutture a mettere a fattor comune poteri, competenze e saperi; investimenti massicci e lungimiranti in ricerca, sviluppo, formazione e istruzione; ma pure un atteggiamento responsabile a Bruxelles, volto a dissolvere i sospetti sul fatto che vogliamo solo allontanare nel tempo la soluzione dei nostri squilibri di finanza pubblica trincerandoci dietro l’avanzo primario.

In fin dei conti, l’unica variabile dalla quale dipende il peso di un Paese nel mondo non è tanto l’essere grandi, medi o piccoli. È l’essere credibili. Regola che, lo vediamo ogni giorno, vale persino per le tre potenze globali. Figurarsi per noi.

Qui è possibile leggere il Rapporto 2018 integrale dell’Ispi

 

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