L’articolo su Formiche.net circa l’arresto a Mosca del pescatore norvegese accusato di spionaggio, configura un’ulteriore involuzione dell’equilibrio nei rapporti tra gli Stati che si affacciano sull’Artico. Infatti Usa, Russia, Canada, Norvegia e Danimarca sono da sempre, a vario titolo e in diversa misura, coinvolti nella gara per la spartizione di presunti tesori sottomarini. Di riflesso, in qualche modo restano coinvolte anche Svezia, Finlandia, Stati Baltici e Polonia.
La prossimità dell’enclave russa di Kaliningrad, dove Mosca ha appena confermato che la presenza dei missili a medio raggio Iskander non ha più carattere di provvisorietà, ma è ormai da considerarsi definitiva, non serve certo ad alleggerire la situazione.
La corsa allo sfruttamento dei fondali dell’Artico, ritenuti ricchi di gas naturale e idrocarburi, ha un’origine piuttosto remota e negli anni è stata oggetto di alterne vicende, con la Russia sempre pronta a far pesare le proprie ragioni. Negli ultimi anni, quando il ritiro dei ghiacci ha cominciato a modificare il profilo dell’area e a rendere meno complessa la valutazione di pertinenza dei fondali e mettendone meglio in luce il valore economico, la pericolosità per il buon andamento delle relazioni internazionali è emersa in tutta evidenza. Anche senza ghiaccio, le rinnovate assertività e spregiudicatezza di Vladimir Putin stanno rendendo il campo di gioco assai sdrucciolevole.
Secondo il diritto internazionale l’Artico non appartiene a nessuno Stato, e pertanto è amministrato dall’Autorità per i Fondali Marini, con sede a Kingston, in Giamaica. Nel 1982, la Convenzione Onu di Montego Bay (non sottoscritta dagli Stati Uniti) stabiliva che ciascuno Stato rivierasco potesse sfruttare le risorse sottomarine che si trovano in un’area entro le 200 miglia nautiche dalle coste. A ciascuno, tuttavia, veniva anche data la possibilità di dimostrare che una certa conformazione del fondale altro non è se non la continuazione della propria placca continentale. In tal caso, lo sfruttamento può anche superare il limite imposto. Il progressivo ritiro dei ghiacci ha quindi scatenato la lizza, con Russia e Norvegia in prima fila.
Come atto di buona volontà, nel settembre 2010 tra Mosca e Oslo veniva firmato un accordo di cooperazione nel Baltico e nell’Artico, dove la Russia (forse nel tentativo di tenere al proprio fianco almeno un Paese della Nato), rinunciava ad alcune pretese e acconsentiva di dividere le due zone di competenza con una linea di confine tra le isole Svalbard e quelle della Novaya Zemlya. Per qualche tempo la cooperazione dava i suoi frutti, ma nel settembre 2011 Putin rubava la scena e asseriva testualmente: “…Da un punto di vista geopolitico, i nostri interessi nazionali più vitali sono legati all’area dell’Artico. La Russia espanderà la sua presenza e difenderà con forza e decisione i propri interessi”. La Norvegia è servita, e così pure Usa, Canada, Danimarca e Paesi Baltici. Svezia e Finlandia cominciano a preoccuparsi.
In Occidente la dichiarazione di Putin viene presa con grande serietà, tanto che nel summit di Lisbona si era addirittura parlato di costituire – a contrasto – una mini-Nato del Nord cui si sarebbero affiancate anche Finlandia, Svezia, Islanda e Paesi Baltici. Ufficialmente non se n’era fatto nulla, ma nell’aprile 2015 i ministri degli Esteri di questi Paesi emettevano un comunicato congiunto che riguardava la necessità di approfondire, anche attraverso un programma di esercitazioni periodiche denominato Artic Challenge, la loro cooperazione in materia militare.
Il seguito, incluse le forniture di armamenti da parte degli Usa, la reintroduzione della leva in Norvegia, i rischieramenti di velivoli da difesa aerea di Paesi dell’Alleanza, la nuova “grinta” militare della pacifica Svezia, è cronaca dei giorni nostri.