La violenza non ha colore politico, possiede soltanto il marchio disumano della viltà. Questo è senz’altro vero. E sarebbe facile utilizzare le argomentazioni persuasive che Hanna Arendt potrebbe offrirci al fine di spiegare perché l’uso della forza fisica rappresenta il peggiore modo di mostrare la mancanza di una reale robustezza morale, quella mediante la quale è unicamente legittimo sostenere con convinzione idee politiche opponendosi ad altre con cultura e capacità dialettica.
Ma davanti ai nostri occhi c’è un fatto più sconcertante e urgente: la violenza è tornata davvero nelle piazze e nella società, la violenza è tornata nelle famiglie e nei rapporti di amicizia, la violenza è tornata a inquinare la nostra coscienza civile e personale di italiani.
Gli episodi deprimenti della cronaca quotidiana si susseguono l’uno all’altro, attraversando città molto diverse come Palermo, Perugia e ovviamente Roma, la capitale. Da un lato un militante di Forza Nuova che viene mandato in ospedale a bastonate da membri attivi di un centro sociale, dall’altro un attivista di Potere al Popolo accoltellato mentre affiggeva manifesti elettorali, ma, al centro di tutto, il vilipendio alla lapide commemorativa di Aldo Moro con la scritta “morte alle guardie” e tanto di svastica spruzzata come firma.
La violenza è tra noi, non c’è dubbio, ma di che si tratta in realtà?
Sicuramente è presto per dire se sono stati casi sporadici e passeggeri o se sotto si nasconde qualcosa di molto più diffuso e permanente. Indubbiamente però la situazione attuale pone delle analogie forti con quanto avveniva all’inizio del secolo scorso in tutta Europa, e che Henri Massis ha raccontato nel famoso libro Les jeunes gents, e con quanto abbiamo vissuto nelle strade delle nostre città negli anni del terrorismo.
Oggi come allora, infatti, regna un pessimismo attivo, una volontà spasmodica di trovare identità perdute, ma, soprattutto, oggi come allora la politica tende a radicalizzarsi, le idee a trasformarsi in armi, e l’odio a sostituirsi alla ragione.
È difficile dire che cosa alimenti realmente lo scontro civile in atto: sicuramente il bisogno di trovare soluzioni rapide ed estreme al male interiore e al degrado vissuto, ma anche la volontà di riappropriarsi di se stessi, sbrigativamente, usando l’ostilità indiscriminata e la cancellazione di se stessi facendosi boia improvvisati di un tribunale immaginario.
La tragedia della violenza politica, soprattutto quando essa si esprime come guerriglia urbana, non è l’importanza di ciò che la motiva ma l’ingiustificata certezza di ciò che riesce a distruggere. Niente più razionalità, niente più confronto, e alla fine niente più idee, neanche quelle che vorrebbero, alla fine, giustificare l’insana azione compiuta contro un altro se stesso.
Il dato stesso della democrazia, la modalità esatta nella quale in essa regna solo il parlare, viene meno automaticamente, e con essa sparisce l’intrinseco valore intellettuale che ha la politica seriamente militante, la quale non riguarda affari ed interessi ma confronto diretto per far valere valori ritenuti fondamentali attraverso l’abile uso delle parole e non attraverso il vile riscorso all’arma del pestaggio di gruppo.
Non è un caso che a distanza di tanti anni si torni ancora a dileggiare un simbolo che richiama pienamente colui che più di tutti ha pagato col proprio sangue la fede nella democrazia: Aldo Moro.
Egli è stato il politico che ha incarnato per essenza la dedizione intellettuale ai valori etici della Repubblica: la passione culturale per il nostro Paese e l’idea stessa che non è l’alternativa radicale nei riguardi dell’altro, ma il confronto razionale con lui a far vincere la giusta politica.
Egli era convinto infatti che “un coerente svolgimento democratico ha lo Stato che assicura veramente la sua democraticità, ponendo a base del suo ordinamento il rispetto dell’uomo guardato nella molteplicità delle sue espressioni”.
La sua memoria, con tutta evidenza, è la prima che deve essere blasfemata se si ritiene che i propri Sì e i propri No non debbano seguire la via umana del dialogo ma quella bestiale della prepotenza nichilista.
Ancora oggi vale la pena sentirsi fieri di aver avuto nella nostra nazione uomini che hanno saputo far fronte, come Moro, all’irrazionalità di chi nega l’altro con disprezzo manicheo, spesso senza nemmeno sapere perché fa quello che fa. E ancora oggi si ha un senso di vergogna per i torbidi che si perpetrano contro uomini e donne come lui. Sempre con Moro vale la pena ripetere che una politica “ha la sua dignità e la sua forza nel costruire una società libera e giusta, a prescindere dalle idee che si ritengono ottimali per realizzarla”.
Anche perché laddove entra in scena la brutalità, istantaneamente si manifesta la falsità della motivazione ideale che una politica presume di avere come giustificazione necessaria all’uso stesso della violenza politica.