Nulla da eccepire sull’ultimo articolo di Federico Fubini, dalle pagine de il Corriere della sera. Unico rilievo critico, il fatto che sia stato scritto con l’inchiostro del buon senso. Merce scomparsa dall’orizzonte politico italiano. L’autore snocciola, come in un rosario, gli incubi prossimi venturi. Quando all’indomani delle elezioni si dovrà costruire un nuovo Governo. Qualunque sia la conta dei vincenti e dei perdenti, non vi sarà alcun “zoccolo duro” per ricordare il buon Achille Occhetto. Ma una base programmatica labile e incerta, che farà inorridire i nostri censori europei.
Lo spazio delle mille promesse, lanciate nel corso della campagna elettorale, si trasformerà allora in un boomerang destinato a cadere sulla testa degli italiani. Un risveglio amaro per tutti coloro che ritenevano, a torto o ragione, che i tempi del purgatorio, come aveva preconizzato Antonio Fazio al tempo della nascita dell’euro, fossero finiti. Vi saranno invece pene aggiuntive. Il prezzo da pagare per non essere stati capaci di controbattere, in modo efficace, alle facili tesi di chi predica solo l’austerità per gli altri. Mentre a casa propria si comporta come se nulla fosse.
In tutti questi anni il nostro rapporto con l’Europa è stato sempre oscillante tra il rifiuto muscolare e l’accomodamento codino. Con qualche pizzico di presunta furbizia – dati di bilancio cucinati nel retrobottega di Via XX Settembre – subito scoperta e sanzionata. Come mostra il carteggio con Bruxelles e la sua richiesta di una manovra correttiva, da accollare al Governo che verrà. Quei 3 o 4 miliardi, stando alle prime indiscrezioni, che irromperanno sulla scena politica italiana durante la trattativa per il nuovo Governo. O se andrà bene, durante i primi cento giorni del nuovo Esecutivo: il periodo migliore per mantenere aperto il feeling con i propri elettori. Guastato, tuttavia, dall’interferenza degli uomini di Bruxelles.
La verità è che non siamo stati in grado di seguire l’insegnamento di Mario Draghi – solo contro tutti – e trasportare quella sua stessa logica nel puzzle dei conti pubblici italiani. Tanto meno di far pesare nella discussione gli altri elementi del quadro macroeconomico nazionale. Facendo emergere i nessi che legano la complessa architettura del sistema economico. Aver isolato solo l’aspetto “conti pubblici” ha falsato il quadro, determinando il fallimento di tutti i possibili obiettivi. Deficit e debito, infatti, non si sono ridotti, lo sviluppo si è arrestato, la disoccupazione è cresciuta a livelli record. E con essa lo stato di disagio sociale, dovuto ad una crescente povertà relativa ed assoluta, che ha assunto i contorni drammatici, lievito di ogni populismo.
Invece di alzare inutili barricate o contestare gli algoritmi della Commissione – tutto il problema del calcolo del deficit strutturale – sarebbe stato più semplice chiedere delle verifiche, circa i risultati delle politiche seguite. Valutazioni tra l’altro previste dal Trattato che ha istituito il fiscal compact ed imposte dal Parlamento europeo ad una Commissione riluttante, pronta ad escogitare qualsiasi cosa pur di aggirare un ostacolo fastidioso. Gestione politica poco accorta da parte dei responsabili italiani. Si trattava semplicemente di vedere dove quelle regole hanno funzionato e dove hanno fallito, creando più problemi che soluzioni. Una verifica non limitata al solo caso italiano, ma estesa all’intera comunità dei Paesi membri dell’Eurozona.
Mario Draghi ha vinto la sua battaglia, soprattutto contro un avversario del calibro della Bundesbank, invocando l’applicazione dei principi che regolano l’ordinato sviluppo dell’economia. Nel rispetto dello Statuto della BCE e delle prassi seguita dalle altre Banche centrali: dalla FED a quella del Giappone. I grandi pivot dell’equilibrio finanziario mondiale. Non ha chiesto né deroghe, né sconti particolari. Il che gli ha consentito di presentarsi come l’alfiere di un pensiero razionale, contro le paure immotivate e le fobie dei suoi avversari. Ed il mercato lo ha premiato. Basti guardare agli andamenti delle borse europee, che non hanno ceduto il passo rispetto ai concorrenti esteri o allo sviluppo impetuoso del risparmio gestito. Oppure ai dati della crescita economica dell’Eurozona così prossima a quella americana.
Nelle competizione elettorale queste possibili posizioni, all’insegna del buon senso, sono uscite dai radar della comunicazione. Si è preferito il continuo inconcludente rilancio. La luna nel pozzo, piuttosto che l’individuazione di un sentiero realistico fatto di cose concrete da fare e di possibili battaglie da intraprendere. Non tanto in nome degli interessi nazionali, che ovviamente contano. Ma guardando ad un orizzonte più ampio. Quello di un Europa che rischia di andare alla deriva, trasformando il sogno dei suoi Padri fondatori in una sorta di ritorno al passato. Segnato dagli egoismi e dalla rivalità che furono proprie del secolo che abbiamo lasciato alle nostre spalle.