Il presidente dell’Autorità palestinese, Mohammud Abbas, è in Russia per un incontro speciale con Vladimir Putin e altri notabili del Cremlino (l’incontro si sarebbe dovuto svolgere a Sochi, buen retiro di Putin, ma il disastro aereo di Argunovo ha richiesto la presenza in ufficio del presidente, che è anche stato tenuto fermo per ragioni di sicurezza).
Enorme l’argomento dell’incontro: cercare la via per creare un nuovo meccanismo di mediazione sulla questione israelo-palestinese. Secondo l’ambasciatore palestinese in Russia, Abdel Hafiz Nofal, il nuovo formato dovrebbe sostituire il quartetto per il processo di pace in Medio Oriente, formato da rappresentanti dell’Onu, della Russia, dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. “Vogliamo che Mosca abbia un ruolo decisivo nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Abbas visita regolarmente la Federazione Russa, solitamente due volte all’anno, ma questo incontro sarà di particolare rilevanza a causa degli ultimi sviluppi nella regione”, ha sottolineato Nofal.
“La chiave è l’internazionalizzazione della vicenda, ovvero il coinvolgimento del maggior numero di attori chiave a scapito di quello, gli Stati Uniti, che fino ad oggi ha dettato legge sul processo e sugli esiti”, ha scritto su queste colonne Marco Orioles spiegando come la Palestina stia cercando di marginalizzare gli americani che finora hanno occupato il ruolo di leader nel dialogo; e pensare che il presidente Donald Trump ha investito il suo genero-in-chief Jared Kushner di curare personalmente il fascicolo, con l’obiettivo nemmeno troppo celato di arrivare a una soluzione da lasciare come lagacy internazionale della sua presidenza.
Abbas aveva chiesto esplicitamente a Putin uno step-on nel processo dopo che l’amministrazione Trump aveva reso chiaro il proprio intento di seguire le direttive dettate dai congressisti già dal 1995 e spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, mossa che si sarebbe portata dietro il significativo passaggio del riconoscimento della città come capitale unica dello stato ebraico (scacco via via rinviato per ragioni di mantenimento di equilibri). Mosca, dalla sua, è da mesi che ripete come questo genere di decisioni dimostri la non imparzialità degli Stati Uniti (evidentemente troppo pro-israeliani, dicono i russi), e dunque la necessità di nominare un altro arbitro davvero terzo.
Putin tra i vari obiettivi di politica estera ha anche quello di passare da dealer internazionale in grado di risolvere questioni aperte: attività da svolgere sempre con un occhio al proprio interesse, ma che dovrebbero dare splendore alla Russia come honest-broker sul panorama internazionale, distogliendo l’attenzione dalle imparzialità interne che hanno creato il controllo sul potere neo-zarista putiniano e dalle interferenze estere. Per esempio: dopo l’intervento militare a difesa del suo partner strategico, Mosca ha intavolato in Siria un processo di pace indipendente dal burocratizzato percorso onusiano; o ancora, in Libia, la Russia ha creato pressione diplomatica annacquando il piano (zoppo) di creare un governo unitario proposto dalle Nazioni Unite.
Sul dossier mediorientale Mosca tiene aperte diverse porte: Abbas arriva in Russia poche settimane dopo Benjamin Netanyahu. Il premier israeliano ha un rapporto delicato con Putin, ma è anche possibile che sia disposto a cedere qualcosa sul fronte palestinese in cambio di rassicurazioni sulla propria sicurezza nazionale. Israele vuole tenere lontano dai propri confini l’Iran, e i proxy di Teheran come gli Hezbollah libanesi.
Per farlo sfrutta anche la situazione caotica del conflitto siriano, terreno intricato sfruttato dagli ayatollah per aumentare influenza e potere, e passare armi alle milizie controllate come quelle fidate libanesi – armi che, secondo le intelligence israeliane, potrebbero essere usate contro Israele. Negli ultimi giorni abbiamo avuto una dimostrazione di questa linea di interessi: Israele ha pesantemente bombardato delle postazioni in Siria dove erano acquartierati i miliziani filo-iraniani e anti-israeliani, e lo ha fatto col beneplacito russo, che sui cieli siriani ha il controllo totale di tutto ciò che avviene.
L’obiettivo di Netanyahu è quello di convincere Mosca che Teheran è un partner scomodo, ed è probabile che sul piatto possa mettere concessioni riguardo al dossier-Abbas: Putin sa che gli israeliani non accetteranno mai di sostituire l’America con la Russia (è una questione di fiducia), ma cerca il modo per intestarsi qualche merito, in cambio dei quali potrebbe cercare di limitare il potere iraniano in Siria – nel pragmatismo del presidente russo c’è anche l’unire l’utile al dilettevole, visto che i rapporti tra Russia e Iran viaggiano su un delicato equilibrio di convenienza nell’appoggio simultaneo a Damasco, ma trovano grosse distanze dal punto di vista della lettura politica, geopolitica, della situazione, con Mosca molto lontana ideologicamente dalla posizione della Repubblica islamica.
Le mosse di Putin sul dossier-Palestina non finiranno con l’incontro con Abbas: in programma il 15 febbraio c’è anche la visita di Abdullah di Giordania, che arriverà alla stretta di mano con Putin dopo aver visto il segretario di Stato americano, Rex Tilerson, che toccherà Amman in una tappa del suo tour mediorientale. La Giordania ha profonda influenza sulla questione palestinese, è un paese alleato americano che però ha rapporti ottimi con la Russia, ha un tema-sicurezza molto dipendente da Israele e collegato alla situazione in Siria: Amman ha interessi simili a quelli di Tel Aviv nel tenere lontane le spurie del conflitto siriano dai propri confini, e per questo è un altro deputato a negoziare qualcosa con Mosca.