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Tecnologia, competenze e partecipazione. La sfida per Leonardo, Ilva e i grandi gruppi industriali. Parla Marco Bentivogli

Il destino di Leonardo, la Difesa italiana, l’industria 4.0. Ma anche lo psicodramma dell’Ilva e le elezioni più incerte che la Repubblica ricordi. C’è un po’ tutto questo nelle riflessioni di Marco Bentivogli (nella foto) sindacalista di lungo corso, da tre anni abbondanti alla guida dei metalmeccanici della Cisl. In questa intervista a Formiche.net Bentivogli confida la sua personalissima visione dell’industria tricolore. Perché chi conosce bene il mondo delle imprese, del lavoro, sa bene quanto la congiuntura politica influisca sulla produttività di un Paese. E l’Italia non fa certo eccezione. Allora, se prevenire è meglio che curare, viene da chiedersi per esempio, che cosa sta funzionando oppure no nel rapporto tra la politica e la seconda manifattura europea.

Bentivogli, tre giorni fa Leonardo ha presentato il piano industriale al 2022. Eppure, al netto delle perplessità di Borsa e analisti, non mancano le incognite politiche visto l’avvicinarsi del voto. Quale ruolo dovrà avere la politica del post voto nello sviluppo del business di Leonardo?

Il mercato non ha apprezzato la guidance prudente del piano, è vero. Ma non enfatizzerei questo giudizio. Intanto bisogna vedere che cosa avverrà nelle sedute delle prossime settimane. La logica con cui gli operatori finanziari si muovono è spesso ancorata al breve periodo, la logica degli altri stakeholder, a cominciare dalla nostra, dai sindacati, guarda ad un orizzonte più lungo. Leonardo è una delle poche grandi aziende del Paese ed è chiamata a operare in un contesto internazionale estremamente competitivo. Credo che il prossimo governo dovrà continuare nella linea di integrazione che sta emergendo con forza a livello europeo. Non è immaginabile che Leonardo perda questo treno. Così come non è immaginabile un governo che non tuteli competenze e tecnologie che fanno parte del bagaglio dell’azienda e ne costituiscono l’asset più prezioso.

Ma la vostra impressione sul piano del ceo Alessandro Profumo qual è? Gli obiettivi sono ambiziosi, non c’è dubbio…

Come Fim-Cisl riteniamo che le linee guida proposte dall’azienda siano una strada corretta da intraprendere per mettere in sicurezza il gruppo. Riteniamo però necessario comprendere e confrontarci su quali siano le azioni concrete che verranno attivate a partire dagli investimenti e dalla riduzione dei costi: per questo abbiamo chiesto la rapida attivazione dei tavoli divisionali al fine di entrare nel dettaglio dei singoli interventi e poter esprimere valutazioni e giudizi completi. Abbiamo inoltre sottolineato il permanere delle nostre preoccupazioni per alcuni siti particolarmente carenti di backlog (Venegono-VA) e che già dalla fine di quest’anno potrebbero far emergere problemi produttivi e di saturazione occupazionale.

Più nello specifico Profumo sembra aver puntato all’innovazione tecnologica, finalizzata alla competitività del prodotto da vendere. Le pare una scelta vincente?

Credo di sì. Con Industry 4.0 e la rivoluzione digitale che avanza investire nell’innovazione tecnologica è vitale. Credo altresì che l’innovazione vada praticata anche sul piano delle relazioni industriali e della contrattazione, favorendo una maggiore partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze. Nell’attuazione di questo piano industriale riteniamo necessario qualificare e rendere efficaci le relazioni sindacali a ogni livello. Queste necessitano di confronto costante e risolutivo sia per gestire gli importanti processi di intervento e trasformazione dell’azienda, che per identificare le soluzioni contrattuali ai tanti temi ancora aperti ed inevasi.

Allarghiamo lo sguardo per un attimo, Bentivogli. In Italia si parla spesso di tagli ai budget della Difesa e di spesa per la sicurezza troppo bassa rispetto al Pil. Eppure la Difesa è un comparto tutt’altro che secondario per il Paese. Che cosa non funziona?

Credo che il budget dipenda dalle scarse dotazioni di risorse del bilancio pubblico. C’è poi un altro problema, l’utilizzo duale degli investimenti e la capacità di determinare occupazione, proprietà tecnologica, crescita di capacità industriale. Aspetti che ultimamente in molti programmi, pur costosi, sono stati trascurati. È normale e coerente che in ogni Paese quando si stringe sulla spesa pubblica e sulla spesa sociale, si rivedano i programmi di spesa anche sulla Difesa.

Dimentichiamo Leonardo e passiamo all’acciaio, sempre industria è. L’Ilva rischia seriamente di chiudere con Arcelor-Mittal che potrebbe rivedere i propri investimenti in caso di incertezze durature. Lei ha più volte criticato la miopia degli enti locali. Che cosa si sta inceppando su Taranto?

Sull’Ilva c’è qualcuno che non sta facendo la sua parte. I sindacati sono impegnati nella trattativa con Arcelor-Mittal per raggiungere un accordo sul piano industriale e sul piano ambientale. Il governo, dopo alcuni tentennamenti, ha bandito una gara che ha selezionato un acquirente – il Gruppo appunto – che è leader a livello mondiale ed europeo nella siderurgia, all’avanguardia anche dal punto di vista tecnologico, come abbiamo avuto modo di constatare con i nostri occhi visitando lo stabilimento di Gent, in Belgio. Invece Regione Puglia e Comune di Taranto hanno scelto di mettersi sistematicamente di traverso, agitando in modo demagogico la questione ambientale e soffiando sul fuoco delle paure che a Taranto, visto ciò che è successo in passato, sono ampiamente – e comprensibilmente – diffuse.

E quindi? Che cosa rischia davvero il Paese?

La verità è che il ricorso al Tar rischia di far saltare la cessione a Arcelor-Mittal e di far chiudere uno stabilimento che dà lavoro a 14 mila persone, per non parlare delle imprese dell’indotto. Un disastro non solo per Taranto, ma per tutto il Paese, un disastro che già ci è costato un punto di Pil e rischia di costarci la perdita della dorsale della nostra siderurgia, che è parte fondamentale della sovranità industriale di un grande Paese manifatturiero come l’Italia. Ai sovranisti di casa nostra queste cose però non interessano: preferiscono parlare d’altro, dei complotti immaginari orditi da Soros o degli immigrati che ci rubano il lavoro. E purtroppo non interessano nemmeno a Emiliano e Melucci.

Altro salto acrobatico, l‘industria 4.0 di cui lei è in un certo senso l’ispiratore insieme al ministro Calenda. A che punto siamo in Italia? Riuscirà il mercato del lavoro ad aggiornarsi ai canoni 4.0?

Non abbiamo alternative all’aggiornamento. Il nostro mercato del lavoro si distingue per il troppo ampio divario tra domanda e offerta, un problema che in larga parte deriva dal fatto che le imprese faticano a trovare lavoratori con un profilo professionale adeguato alle posizioni che offrono. Questa patologia rischia di aggravarsi man mano che la rivoluzione digitale avanza e rende obsoleti modelli produttivi e organizzazione del lavoro. Con il ministro Calenda abbiamo di recente pubblicato su Il Sole 24 Ore il piano industriale per l’Italia delle competenze, un documento che abbiamo offerto alla riflessione dei partiti impegnati nella campagna elettorale, nella speranza di indurli ad confronto più serio rispetto a quello andato in scena finora.

Tutto condivisibile Bentivogli. Ora però c’è da mettere in pratica i buoni propositi…

Purtroppo la disinvoltura con cui si fanno promesse a carico della fiscalità generale non lascia presagire nulla di buono. La nostra idea, invece, è che si debba investire sulle competenze ed in particolare sulle competenze digitali, visto che nel prossimo futuro l’occupazione crescerà solo nei paesi che si sono dati obiettivi ambiziosi in tal senso. Ricordo che le dieci professioni oggi più richieste sul mercato del lavoro dieci anni fa non esistevano. Purtroppo l’Italia parte staccata: da noi solo l’8,3% dei lavoratori partecipano a corsi di formazione, contro una media Ue del 10,8%. Questa è la ragione per cui ci battiamo affinché venga riconosciuto, come è già avvenuto per i metalmeccanici con il nuovo contratto nazionale, il diritto soggettivo alla formazione per tutti i lavoratori.

Parliamo di politica, elezioni. La campagna elettorale sta partorendo una girandola di promesse, dal fisco all’industria al lavoro. La sensazione è però che manchi una certa aderenza alla realtà del Paese. È così?

Direi che è più di una sensazione. Se la realtà del Paese fosse realmente quella che si riverbera nelle proposte demagogiche da cui siamo invasi ci sarebbe da piangere. Fortunatamente non è così. Tuttavia non dobbiamo nasconderci che le sirene del populismo si fanno sentire anche tra i lavoratori e nelle fabbriche. Individuare le cause che hanno prodotto quello che definisco il saccheggio della coscienza operaia da parte dei populisti non è facile, bisogna risalire indietro nel tempo, al dissolversi delle ideologie e dei partiti di massa, che ha lacerato la dimensione collettiva dell’esistenza per approdare ad una forma esasperata di individualismo che è la cifra di questa epoca. Detto questo, credo che molte responsabilità le abbia anche il sistema dei media.

In che senso Bentivogli?

Le spiego. Per anni ha dato spazio solo ad un sindacalismo ciarliero, antagonista a parole ed inconcludente nei fatti. Il risultato è stato convincere la gente che un buon sindacalista è un sindacalista che dice sempre no. Ma un sindacalista che dice sempre no (o sempre di si) non è un sindacalista. Lo stesso è avvenuto per quanto riguarda la politica: la denuncia ossessiva della casta – che pure di colpe ne ha e gravi, intendiamoci – si è risolta in un esercizio retorico e deresponsabilizzante, e alla fine si è ritorta contro chi pensava di trarne profitto. Non possiamo meravigliarci, allora, se ci troviamo in campagna elettorale a discutere di reddito di cittadinanza, abolizione del bollo auto e tasse universitarie.


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