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La mitezza politica e la fermezza sui principi. L’Aldo Moro non celebrato (abbastanza)

Il modo più insincero di vivere gli anniversari, specie quelli a cifra tonda, è nel far prevalere il celebrazionismo rituale, adagiato sull’abitudine e su una gestualità codificata nei protocolli del galateo di Stato. Di più: può accadere che, alla distanza, si affastellino parole d’ordine, false certezze, affermazioni inesatte eppure mai confutate, che diventano pietre non più rimovibili. I quarant’anni da che Aldo Moro venne tolto alla famiglia e alla vita pubblica in qualche maniera hanno messo in fila tutte le insidie del rito ufficiale della memoria, dando per acclarati e storicamente documentati convincimenti politici che sono tutti da provare.

Come – l’abbiamo ascoltato in uno dei documentari televisivi, non del servizio pubblico, circolati negli ultimi giorni- il dare per certa l’adesione al compromesso storico di Berlinguer, scambiando il richiamo alla terza fase evocata dallo statista pugliese nell’orizzonte di un’età adulta della democrazia italiana, capace di guardare alla necessaria alternanza, come un’esplicita accettazione di una collaborazione organica con il Pci. Ma, al netto dell’immenso giacimento politico che si intravede nell’azione e nel pensiero di Moro, occorrerebbe oggi recuperarne il contributo alla costruzione di un’etica costituzionale condivisa, partendo dal suo importantissimo ruolo nell’assemblea Costituente.

Stiamo ancora in tema di celebrazioni- è il settantesimo della Costituzione- e, per la verità, su questo versante non si vede un gran daffare da parte delle istituzioni pubbliche. Moro non aveva trent’anni quando venne eletto alla Costituente, distolto dalle aule della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari, dove insegnava diritto Penale e filosofia del diritto. Era un leader della Fuci, l’organizzazione degli universitari cattolici, e aveva poco a che fare con il gruppo dirigente dei popolari che in Puglia svolgeva un ruolo egemone nella Dc. Alla Costituente fu vice capogruppo e membro della I Sottocommissione che si occupò dei diritti e dei doveri dei cittadini.

In realtà fu un Costituente che non circoscrisse i suoi interventi ad un solo argomento in discussione, ma si mosse con piena competenza a 360 gradi, dalla scuola alla famiglia, dall’insegnamento della religione alla democrazia interna dei partiti, dal voto segreto nelle assemblee legislative alla richiesta di democrazia nelle strutture militari, dalla condizione della donna al Mezzogiorno, dai diritti di libertà alla forma stato. Alla fine dei lavori della Costituente non meno di 300 interventi sarebbero stati svolti dal giovane professore pugliese e diversi tra gli articoli approvati avrebbero avuto il suo imprinting nella fase progettuale, propositiva o nella mediazione finale.

Una certa storiografia lo avrebbe associato al gruppo dei professorini, i giovani intellettuali raccolti attorno alla figura di Dossetti e La Pira. In realtà Moro fu un protagonista non catalogabile: collaborativo ma autonomo, intellettualmente e politicamente. In quella formidabile stagione affinò la sua qualità di mediatore e di costruttore di ponti, anche con la cultura di cui erano portatori Togliatti, Concetto Marchesi, Nilda Iotti. Adoprando, se è possibile dire, la mitezza nelle relazioni politiche, senza, però, cedere mai di un solo millimetro sui principi. La mitezza politica. Un’altra declinazione della gentilezza: qualità che fanno del tutto inattuale l’insegnamento del grande pugliese.

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