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Banche popolari. Perché sono perplesso sulla sentenza (all’italiana) della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale ha reso nota nei giorni scorsi, in un comunicato, la propria decisione di non ritenere fondate le questioni di costituzionalità sollevate dal Consiglio di Stato con riferimento alla riforma delle banche popolari introdotta, come noto, con decreto legge nel 2015.

La sensazione, pur non conoscendosi ancora in dettaglio le motivazioni del provvedimento, è che la Consulta abbia fatto proprio l’italico adagio secondo cui “chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato…”, dichiarando a posteriori conforme a diritto la situazione di fatto: la maggior parte delle banche popolari soggette all’obbligo di conversione, infatti, ha già da tempo concluso il procedimento di trasformazione in società per azioni. È di tutta evidenza, dunque, che anche una decisione di segno opposto da parte della Corte non avrebbe comunque potuto riportare indietro le lancette del tempo rimettendo in discussione una situazione ormai consolidatasi, come insegna una corposa sequela di pronunce sull’intangibilità dei famigerati “diritti quesiti”.

Pragmatismo a parte, sia consentito a chi ha il difetto di considerare ancora un valore il rispetto dei principi costituzionali, nutrire qualche perplessità su alcuni profili.

Innanzitutto, l’avere elevato a novello parametro costituzionale il “ce lo chiede l’Europa” ritenuto motivo idoneo – e solo! – a giustificare l’intervento governativo per decreto, come si legge nella relazione al provvedimento e come avallato, anche se apoditticamente, dalla Corte costituzionale in una precedente decisione sulla quale, con tutta probabilità, si è appiattita l’attuale nonostante la diversità dei giudizi e dei rilievi sollevati nonché l’autorevolezza dell’Organo remittente – il Consiglio di Stato – fattori che avrebbero forse richiesto una riflessione più ampia.

Magari almeno esistesse nel tanto invocato diritto europeo o internazionale una sola norma che richieda o anche solo raccomandi l’abbandono della forma cooperativa all’attingimento di determinate dimensioni… Inutile cercare, non ve n’è traccia. Se vi fosse stata, del resto, le Banche popolari sarebbero state le prime ad adeguarsi. Eppure, la Consulta dovrebbe essere il supremo garante dell’osservanza e del rispetto della nostra Costituzione anche a tutela della democraticità del nostro paese.

E nella Costituzione c’è scritto che la Repubblica riconosce la funzione sociale della Cooperazione e ne promuove e favorisce l’incremento. Come pure vi è scritto, e in tal senso è stato – finora – il costante orientamento della Corte, che il ricorso allo strumento del decreto legge è consentito solo in casi straordinari di necessità ed urgenza.

Che tali presupposti mancassero nel caso della riforma delle banche popolari lo hanno affermato molti illustri costituzionalisti, fra cui due presidenti emeriti della Corte costituzionale, il prof. Cesare Mirabelli e il prof. Giovanni Maria Flick, nonché il compianto prof. Ferdinando Imposimato, che scrisse anche al presidente del Senato, facente funzioni del Capo dello Stato, chiedendo di non firmare il decreto, ed il prof. Michele Ainis.

Ma tant’è, del resto, ce lo chiedeva l’Europa…

Animati allora dallo stesso pragmatismo, non possiamo che constatare il perdurante impegno delle Banche popolari a sostegno dell’economia: nel 2017 esse hanno erogato credito per oltre 200 miliardi di euro, di cui il 25% alle famiglie e il 60% alle imprese, in maggioranza p.m.i. È in aumento anche la fiducia dei risparmatori, con i depositi delle Popolari saliti del 3% e quelli in conto corrente del 4,5%. Circa 100 milioni di euro sono stati destinati al supporto di iniziative di assistenza, promozione culturale e interventi di pubblica utilità.

La miglior riprova della fedeltà delle Banche popolari alla missione per loro pensata dai Padri costituenti.


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