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Foodtech, ovvero come la blockchain rivoluzionerà (anche) l’agroalimentare

Di Mimmo Cosenza
Foodtech Blockchain

Non c’è vendor di tecnologia e consulenza informatica che non parli di blockchain. Laddove esista una filiera di venture capital, le start up vedono lievitare le loro valutazioni pre-money anche solo giustapponendone il termine nella descrizione della propria visione del futuro. Ci troviamo indubbiamente nella paradigmatica fase di hype del ciclo di vita dell’innovazione tecnologica che, invigoritasi nel fintech, sta ora tracimando in tutti i mercati e, molto recentemente, anche nel settore agroalimentare.

Le filiere agroalimentari, che per inciso nel mercato di massa sono dominate da una manciata di supply chain, sembrano infatti rappresentare, per via della numerosità e dell’articolazione dei ruoli che le compongono, uno dei terreni più fertili all’inseminazione della blockchain. Si aggiunga, poi, che la sicurezza alimentare compare in cima alle agende politiche di tutti i più grandi Paesi del mondo, Cina in testa, e l’entusiasmo sostenuto dallo hype tecnologico diventa in breve urgenza progettuale e realizzativa.

La blockchain si presta intuitivamente a essere interpretata come il registro privilegiato in cui gli attori delle filiere agroalimentari potranno memorizzare tutti i dati e gli eventi rilevati dalla sempre più sofisticata sensoristica dell’IoT (Internet of things), utilizzata anche in fase di coltivazione nella cosiddetta precision agriculture. Altrettanto naturalmente, tale immutabile registro si candida a diventare la fonte incorruttibile della verità, verificabile in tempo reale anche dalle agenzie per la sicurezza alimentare. Il consumatore potrà controllare dal suo smartphone la provenienza e le certificazioni di qualità dei prodotti alimentari che acquista.

Gli accordi commerciali tra i vari attori delle filiere potranno essere programmati direttamente negli smart contract la cui esecuzione automatica genererà anche i pagamenti tra le parti, usando criptomonete di conio governativo. La costante misurazione della domanda di ogni prodotto alimentare nei centri di consumo e in tutti i punti intermedi consentirà, con l’applicazione delle regressioni non lineari del deep learning, di governare progressivamente in modo sempre più preciso le quote di produzione e di distribuzione, riducendo ai minimi termini gli sprechi alimentari.

La popolazione mondiale potrà crescere fino a quasi 10 milardi proiettati per il 2050, con la speranza di non lasciare troppi esseri umani privi dell’alimentazione di cui necessitano e di dare ai più fortunati grande varietà di cibo sicuro e salutare. Tutto molto bello, ma occorre ricordare che l’espianto della blockchain dal contesto monetario in cui è nata, con l’aggiunta di qualche correttivo alle proprietà di immutabilità, trasparenza, pseudonimia e decentralizzazione, che nativamente la contraddistinguono, sottovaluta alcune criticità.

Una cosa è registrare i passaggi di proprietà, da un peer all’altro, di asset come le criptomonete, intrinsecamente digitali, artificiosamente mantenute scarse e durevoli nel tempo. Altra cosa è registrare tutte, o in parte, le rappresentazioni digitali degli elementi e le attività che concorrono ai processi di coltivazione, raccolta, trasformazione e trasferimento dei prodotti agricoli verso i consumatori finali. Cosa ce ne possiamo fare della registrazione immutabile, trasparente e distribuita di dati ed eventi relativi ai prodotti agroalimentari, se i legami tra fisico e digitale non sono altrettanto solidi e incorruttibili? Non converrebbe sfruttare la blockchain nei contesti agroalimentari che, rispettandone le motivazioni che le hanno dato i natali nel contesto monetario, le consentano di esercitarne anche il vero potenziale innovativo, opportunamente denominato “The trustless machine” da The Economist? La più interessante suggestione dell’impianto di bitcoin e blockchain rimane la decentralizzazione del controllo. Nel contesto agroalimentare dei Paesi in via di sviluppo, o nei Paesi in cui le dimensioni delle imprese agricole siano molto piccole, come in Italia, la decentralizzazione potrebbe rappresentare una grande chance.

Ci si immagini mercati agroalimentari dove l’opacità dell’intermediazione venga sostituita da mercati peer to peer trasparenti e autoregolamentati. è forse un’utopia, visto che persino gli exchange delle criptomonete sono, a parte un caso sperimentale, tuttora centralizzati, ma sembra essere uno dei pochi contesti del settore agroalimentare in cui, nel rendere giustizia alle proprietà della blockchain, se ne eserciterebbe anche la sua portata rivoluzionaria.



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