L’accordo interconfederale dedicato ai criteri della contrattazione collettiva ha in sè il valore positivo della condivisione anche se lascia irrisolti molti dei vecchi nodi del nostro mercato del lavoro.
Non possiamo non interrogarci sulla oggettiva equazione per cui nel Paese più “unionizzato” si sono sempre riscontrate le anomalie della bassa produttività, dei bassi salari, dei bassi tassi di occupazione. Oggi siamo consapevoli che l’egualitarismo, ieri giustificato dalla produzione seriale e dalle mansioni ripetitive, deprime la vitalità del lavoro. Il contratto collettivo nazionale monolitico ne è stato lo strumento con esiti distributivi disastrosi. Basti pensare agli effetti paradossali di lavoratori con potere d’acquisto inferiore nelle situazioni produttive più efficienti.
È cresciuta ovunque in Europa la propensione al primato della contrattazione territoriale e aziendale in quanto più idonea a definire il sinallagma tra salari e produttività come i termini del reciproco adattamento tra imprese e lavoratori. E nel concreto di quell’azienda o di quel territorio non potremo non considerare tutti i soggetti più rappresentativi anche se non coincidenti con quelli nazionali. D’altronde, di fronte a diversi modelli contrattuali, è possibile stabilire quale sia il contratto più favorevole? Se applicati ad uno stesso ipotetico settore, riterremmo più conveniente per i lavoratori lo schema dei chimici o quello dei metalmeccanici? Il problema insomma non sembra più essere quello della pluralità dei contratti collettivi nazionali bensì quello della effettiva diffusione e applicazione erga omnes dei contratti di prossimità.
I lavoratori hanno interesse innanzitutto a condividere le modalità di ingresso delle nuove tecnologie, a partecipare dei risultati attraverso adeguati incrementi retributivi lì ove sono misurabili, ad accedere alle conoscenze, competenze e abilità che li rendono occupabili, a modulare l’orario di lavoro in relazione alle loro esigenze. E le imprese hanno lo stesso interesse.