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Di Maio, Salvini e la logica politica tra fedeltà ed egoismo

di maio, new york times, salvini

Prima festeggeremo la Santa Pasqua, poi si avrà il governo, se mai si avrà. Questo è senza dubbio il calendario che il Presidente della Repubblica ha previsto per affrontare l’attuale situazione politica. Si tratta di un tempo propizio per far maturare quella soluzione ambita che, conti alla mano, attualmente non c’è.

Se si dovesse stare, infatti, alle proposte elettorali nessuno dovrebbe collaborare con nessuno, e l’Italia dovrebbe restare in stallo e senza una maggioranza. Ovviamente tale atteggiamento non sarebbe giusto e non corrisponderebbe minimamente alla volontà complessiva degli italiani, chiamati sì a scegliere tra diverse opzioni programmatiche, ma con la precisa volontà che i partiti politici trovino infine una soluzione in grado di dare un esecutivo al Paese.

È in questo passaggio delicato che va misurata la maturità diseguale presente nelle diverse posizioni dei partiti.

Ieri sera a “Porta a Porta” Matteo Salvini ha dato prova oggettiva di lucidità, principalmente in due ragionamenti che ha sviluppato: il primo nei riguardi della coalizione di centrodestra, punto di partenza ineludibile per ogni successiva negoziazione esterna; il secondo nei riguardi del M5S, con il quale non soltanto non ha palesato alcuna pregiudiziale ma ha aperto ad una seria discussione sul programma.

In effetti, sembra scontato ma la razionalità politica di un sistema democratico parlamentare dipende da singoli atti logici che ciascuno compie. Abbiamo assistito in passato a bizzarrie indecorose che hanno fatto fallire maggioranze molto consolidate. Si ricordi Fausto Bertinotti che fece cadere il governo di Romano Prodi alla fine degli anni ’90 o Gianfranco Fini che fece lo stesso con Silvio Berlusconi al principio dello scorso decennio. Fatto sta che, all’opposto, saper restare con i piedi per terra è quanto distingue uno statista da qualcuno che ha soltanto bramosia di potere. Luigi Sturzo diceva, puntualmente, che saper dire no a se stesso è l’atto più difficile ma anche quello cruciale per chi si appresta a guidare bene una nazione.

Ebbene, Salvini ieri sera, pur avendo indicato nel simbolo il proprio nome in campagna elettorale, si è detto pronto a fare un passo indietro, a trovare una soluzione a questa crisi di legislatura, finora ben gestita da tutti, purché ovviamente siano salvaguardate l’attuazione del programma e l’unità interna alla sua coalizione.

Il realismo del leader della Lega, tuttavia, non ha trovato altrettanto buon senso, per ora, in Luigi Di Maio. Nel suo blog la guida dei 5Stelle ha postato una considerazione: “Il premier deve essere espressione della volontà popolare. Il 17% degli italiani ha votato Salvini, il 14 Tajani, il 4 Meloni. Oltre il 32% ha votato M5S e il sottoscritto. Non mi impunto per questione personale. È la volontà popolare quella che conta. Farò di tutto affinché venga soddisfatta”.

Un ragionamento documentato il suo che appare tuttavia in contrasto con una constatazione assai semplice: perfino se avesse avuto personalmente più del 32%, non avrebbe potuto con ciò vantare una maggioranza sufficiente a governare da solo.

Meglio essere concreti. Adesso si sta discutendo se poter dare una maggioranza di governo all’Italia e non se i 5 Stelle siano stati bravi a prendere tutti quei voti. E, in fin dei conti, per colmare ciò che manca anche a un’eventuale governo Di Maio, non si capisce perché il Centrodestra dovrebbe regalare, e con ciò tradire, quella parte di volontà popolare ricevuta a vantaggio della sua maggioranza relativa. Un pensiero piuttosto irrealistico, e, al fondo, puerile e capriccioso. Una cosa è la fedeltà al programma, altra cosa è l’egoismo di voler avere tutto per sé anche quando non si può.

È bene, in direzione opposta, che Di Maio cominci a scendere a più miti consigli e ad imitare un pochino il suo rivale leghista. L’alternativa, infatti, non è tra un governo guidato dalla Lega o uno condotto dai 5 Stelle, ma tra un governo, quale che sia, o l’impasse del sistema e il ritorno alle urne. Peggio ancora, secondo la logica dimaiana, un’eventualità di larghe intese sarebbe la peggiore iattura, anche perché segnerebbe il vero congelamento della sovranità popolare. E il suo contabilizzare in proprio il risultato parziale, a ben vedere, pare andare diritto verso una soluzione istituzionale contraria all’obiettivo.

La politica, d’altronde, non è un’iscrizione a un blog o a un club culturale o la fideiussione a un’associazione massimalista, ma concorrenza e collaborazione tra le parti per rendere possibile la complessa traduzione del proprio consenso limitato nelle istituzioni rappresentative dell’intera Repubblica, muovendo, certamente, da un progetto iniziale esclusivo che deve però adattarsi più tardi alle circostanze. Questo separa, d’altronde, un politico da un capobastone.

Tutto ciò implica saper fare molti passi indietro per farne qualcuno in avanti: una logica realistica, modesta, condotta con umiltà che sappia dare risultati effettivi ai cittadini. Insomma, nulla di compatibile con isterismi settari e complessi di superiorità molto mal riposti e, soprattutto, improduttivi.

Siamo, comunque, solo all’inizio, e, di solito, la realtà delle cose finisce per smussare anche le personalità più intransigenti, conducendole verso l’ineludibile compromesso che è doveroso ricercare e poi trovare con gli altri nella congiuntura concessa a ciascuno dalla propria storia.


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