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Gillo Dorfles, l’artista e il critico d’arte: due anime distinte

Di Fulvio Caldarelli e Federica Pirani
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Intervista tratta dal catalogo (Skira 2015) della grande mostra antologica a cura di Achille Bonito Oliva “Gillo Dorfles. Essere nel tempo” (MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma, 27 novembre 2015 – 13 marzo 2016), ideata e realizzata da Fulvio Caldarelli e Maurizio Rossi del Centro interdisciplinare di ricerca sul paesaggio contemporaneo come omaggio all’opera totale del padre storico della cultura visiva italiana del Ventesimo secolo

F.P. Gli anni del dopoguerra italiano sono anni segnati dalla politica, periodo in cui anche gli artisti esprimevano la propria posizione ideologica e rivendicavano la propria scelta di campo. Al contrario, la fondazione del Movimento Arte Concreta, che sigla il suo esordio in qualità di artista, rappresenta un’esperienza dal respiro realmente internazionale, legata al movimento parigino Abstraction-Création e al pensiero di Max Bill. Cosa può raccontarci di quegli anni?

G.D. La fondazione negli anni Cinquanta del MAC corrisponde al periodo storico in cui si verifica uno dei passaggi fondamentali dell’arte contemporanea: la figurazione che aveva troneggiato durante tutto il fascismo, finalmente, si interrompe. Un gruppo di artisti – da Veronesi a Soldati, da Monnet a me stesso – decide di fare una pittura non figurativa, chiamata “concreta” guardando alla Konkrete Kunst di Zurigo e al concretismo tedesco. Artisti come Max Bill hanno avuto un’influenza decisiva in Italia: noi stessi andavamo molto spesso a Lugano a trovarlo nel laboratorio dove lavorava alle sue sculture, così come frequentavamo i coniugi Gideon e tutto il gruppo di artisti concretisti come Lohse, Graeser e Bodmer che avrebbero direttamente ispirato il famoso Studio Boggeri creato a Milano. Il MAC, che nasce come movimento d’avanguardia, è poi diventato un movimento quasi pacifico: artisti decisamente non figurativi come Munari e Veronesi, o come lo stesso Fontana, per la prima volta diventano artisti “accettati” dal mercato, non solo dagli intenditori.

F.P. Non erano anni facili in questo senso. Ricordo le polemiche di Renato Guttuso contro gli astrattisti…

G.D. Non parliamo delle polemiche con gli eredi del fascismo! Artisti che allora erano di moda (Guttuso, Perilli, Dova, Crippa, Morlotti, Cassinari) improvvisamente sono passati in second’ordine. Effettivamente, si è trattato di una piccola rivoluzione.

F.C. Quali affinità elettive legano la tua arte a quel periodo?

G.D. In Germania avevo potuto apprezzare gli artisti dell’avanguardia e già allora pensavo che in Italia dovesse esserci un’arte del genere.

F.P. Sono soprattutto artisti del Bauhaus come Klee e Kandinskij ad averla influenzata in quegli anni?

G.D. Naturalmente il Bauhaus rappresentava il grande tempio a cui guardare, la meta privilegiata. Le correnti milanesi ne subivano il fascino e molti erano andati in Germania per avvicinare gli artisti della scuola di Weimar.
E poi, sebbene avessero un’influenza secondaria su di noi perché più lontani, c’erano anche astrattisti inglesi particolarmente interessanti. Ricordo di essere andato a Londra per incontrare artisti come Barbara Hepworth o Ben Nicholson che poi ospitai nella mia casa di campagna in Toscana.

F.C. Qual è il processo di gestazione all’origine delle tue opere, come prendono forma?

G.D. Ho sempre amato il ghirigoro astratto, un tipo di figurazione spontanea che probabilmente ho ereditato da mio padre, ingegnere navale formato alla tecnologia avanzata, che però si divertiva a fare continuamente questo tipo di disegni. Potrei definirla una tipologia espressiva autoctona, famigliare, che ho sviluppato fin dai tempi del liceo. Quando poi ho conosciuto Klee e Kandinskij non mi è parso vero di ritrovare una modalità figurativa che si avvicinava alla mia. Questi due artisti mi hanno influenzato tantissimo. Naturalmente non conosco i precedenti del loro metodo, ma può anche darsi che non siano troppo dissimili dai miei.

F.P. C’è mai stato un periodo in cui ha smesso di dipingere?

G.D. No, ho sempre dipinto. Naturalmente, quando le mie opere non avevano neanche l’ombra di un mercato mi limitavo ad esporre per amicizia.

F.C. Emilio Tadini ha scritto riguardo alle tue opere: “Ci sono figure in questi dipinti che sembrano dar forma a veri e propri incubi formali”.

G.D. Beh, a Tadini piacevano queste illazioni. Può anche darsi sia vero. Personalmente credo che dietro alle mie figure non ci siano né incubi né fantasmi, ma realtà del colore e della forma.

F.C. Che influenza ha avuto una personalità come quella di Rudolf Stenier sulla tua arte e sulla tua vita?

G.D. A prescindere dal lato misteriosofico – del resto importantissimo – Steiner ha avuto delle intuizioni artistiche notevolissime. Perfino la Biennale d’arte di Venezia del 2013 ha riscoperto il valore della sua figura esponendo le lavagne su cui tracciava durante le conferenze la propria idea di mondo. Goethe è stato l’inventore di una pittura che viene fuori dal colore e Steiner si è appropriato di questo tipo di visione cromatica custodita dal goetheanismo. Va comunque detto che le opere pittoriche antroposofiche sono quasi tutte discutibili: sebbene la volontà fosse quella di una pittura derivata direttamente dal colore, di un acquarello potenziato, a livello di figurazione il risultato è sempre stato modesto.

F.P. Durante la mostra ci saranno molti laboratori didattici rivolti ai bambini. Crede che la conoscenza e l’apprendimento dell’arte siano importanti per lo sviluppo della personalità?

G.D. Indiscutibilmente. Lo studio del colore è fondamentale, dovrebbe trovare spazio in tutte le scuole elementari proprio come base formativa dell’individuo. Alcune scuole, a cominciare da quella antroposofica, fanno elaborare al bambino il colore in forma elementare, al di fuori di ogni figurazione che non sia emanata direttamente dal colore – “aus der Farbe heraus”, come avrebbe detto Goethe – affinché si impadronisca della conoscenza delle diverse tonalità.

F.P. Che ricordo ha degli anni trascorsi a Roma? In qualità di critico, ha riconosciuto prima di tanti altri il valore di artisti come Lucio Fontana ed è stato l’esegeta di Toti Scialoja…

G.D. L’ambiente romano era molto lontano da quello dell’astrazione milanese legata alla Svizzera. Gli artisti che si ritrovavano al Caffè Rosati di piazza del Popolo erano in gran parte ancora figurativi, perfino Scialoja.

F.P. Personaggi come Perilli o Dorazio, che poi entrò a far parte del MAC, forse fecero in qualche modo da tramite tra le due realtà…

G.D. Plinio De Martiis con la sua galleria aveva creato una nuova fase. Tuttavia, si trattava sempre di un tipo di pittura legata alla figurazione. Artisti come Fontana o Burri erano di là da venire.

F.C. Hai affermato che il futurismo è da considerarsi l’ultima autentica avanguardia in Italia.

G.D. Sebbene il futurismo rappresenti il movimento italiano più importante del secolo scorso è stato spesso misconosciuto. Sebbene se ne sia parlato molto, non gli è stata riconosciuta la dovuta importanza.

F.P. Dorazio racconta che Balla conservava le tele della velocità astratta arrotolate in cantina nella sua casa del quartiere Prati: non le voleva mostrare, quasi se ne vergognasse…

G.D. Ricordo che negli anni Trenta la madre di Balla mi portò a casa a vedere i mobili disegnati da suo figlio. Credo di essere stato uno dei pochi ad aver visto quelle creazioni risultato di un’idea di arte totale. Arte che esce dai confini del quadro per ricostruire l’universo. Una premessa di quello che sarebbe stato il design.

F.C. Ci sono documenti che riportano alle tue frequentazioni con la Scuola di Ulm (Hochschule für Gestaltung), come le lettere a te indirizzate da Tomás Maldonado e, prima ancora, da Max Bill. Dunque due testimonianze fondamentali di quel tempo, scenario della sperimentazione tra arte e design.

G.D. La Scuola di Ulm è stata tra le più interessanti, perché già si occupava dell’arte contemporanea e del design. Fui invitato da Maldonado a tenere delle lezioni. A Milano c’era ancora un certo “tentennamento” sul disegno industriale.

F.C. Cosa ti aspetti dalla mostra di Roma? Si tratta di un ritorno dopo qualche decennio…

G.D. Mi aspetto molto e niente. Molto perché apparire ufficialmente in maniera abbastanza completa è qualcosa di nuovo. Ma, d’altro canto, c’è il rischio di essere frainteso.

F.P. Ovvero?

G.D. Il rischio di essere preso per un seguace di qualcuno: è facile dire “ah ma questo lo ha già fatto Kandinskij o Klee…”

F.P. Non credo proprio! La sua è una figura, se posso dire, rinascimentale. Quello che interesserà soprattutto il pubblico è l’idea di totalità che viene fuori da questo allestimento. Nel suo percorso artistico ha sperimentato tante tecniche, inclusa la ceramica…

G.D. La ceramica mi ha interessato da sempre. Erano gli anni della Seconda guerra mondiale quando a Lajatico, il piccolo paese del volterrano dove si trova la mia casa di famiglia, iniziai a modellare il terreno argilloso del posto. Ricordo che feci cuocere nella vecchia fornace di mattoni del paese le mie prime statuette che in seguito ho fatto riprodurre in grande formato in vetroresina.

F.C. Al di là dell’eccesso di umiltà da parte tua nel non voler esibire la tua persona, c’è la necessità di raccontare il tuo lavoro attraverso due anime distinte: produzione artistica e pensiero critico. In altre parole, testimoniare il tuo eclettismo.

G.D. Come ben sai l’eclettismo ha una connotazione negativa per quasi tutti. Io considero invece l’eclettismo qualcosa di positivo, ma sono pochi a crederlo perché si ha la sensazione che se uno fa più di una cosa sbaglia in tutte: la vox populi è che chi vuol fare più di una cosa sbaglia già in partenza. Non ne parliamo se poi queste cose sono la creazione artistica e la critica d’arte! Guai! Che un artista abbia il coraggio di fare critica, e viceversa, è considerato addirittura una perversione.

F.C. Anche perché credo si tratti, sempre e comunque, della stessa pratica fondamentale: l’osservazione. Si osserva all’interno e all’esterno per concepire una forma e dipingerla, come anche si osserva per leggere e interpretare le opere altrui. Se hai scoperto artisti come Capogrossi, Castellani o Fontana è in virtù della tua impareggiabile sensibilità nell’osservazione e nell’interpretazione.

G.D. Sì, non vedo questa contraddizione. Basti pensare a Montale che, ad esempio, disegnava.

F.C. Ecco, appunto, la poesia. Ho avuto modo di leggere più volte le tue poesie e le trovo anch’esse inserite in un unico disegno totale, il tuo.

G.D. Per conto mio non pretendo di essere un poeta importante, però il fatto che autentici poeti come Montale, Saba e Sanguineti le abbiano riconosciute come decenti mi ha consolato.

F.C. All’insegna della totalità, c’è un altro linguaggio a te molto caro: la musica.

G.D. Naturalmente è molto pericoloso fare le cose da dilettanti. La figura del dilettante è riprovevole. Molto dipende dall’atteggiamento: si può essere un mediocre esecutore senza essere un dilettante. Anche se non ho mai scritto una composizione musicale, mi sono sempre interessato alla musica, ma non da dilettante. Da ragazzo ho studiato sul Trattato di composizione di Ferruccio Busoni che, senza sapere chi fosse, avevo conosciuto quand’ero bambino perché era amico di mio nonno paterno, allora direttore del Teatro Verdi di Gorizia. Mio nonno aveva in casa un pianoforte Bösendorfer su cui aveva suonato Franz Liszt di passaggio in città. Gorizia, allora, era ancora una città austriaca e per mantenere legami con il Regno d’Italia mio nonno aveva fondato un circolo culturale patriottico di lingua italiana, da cui passò anche la più grande attrice dell’epoca, Eleonora Duse.

F.C. Qualche giorno fa mi parlavi delle lingue e delle differenze in questa nostra Italia, delle peculiarità della Sardegna e di altri luoghi dalle forti caratteristiche che si riflettono in mentalità ben distinte…

G.D. Direi che l’Italia è un esempio molto interessante del rapporto tra i dialetti locali e l’indole degli abitanti. In fondo dialetto cagliaritano, dialetto napoletano e dialetto piemontese sono esempi di tre mentalità completamente diverse.

F.C. La ricerca sui carteggi selezionati per questa mostra ha messo in luce un legame privilegiato tra te e Arnheim…

G.D. Arnheim è stato una figura fondamentale per la psicologia dell’arte non solo in Inghilterra e nei paesi anglofoni, ma soprattutto in Italia. Quando ho deciso di mia iniziativa di tradurre in italiano Art and Visual Perception e di proporne la pubblicazione a Feltrinelli – che altrimenti non ci avrebbe mai pensato – da noi, a parte pochissimi specialisti, nessuno sapeva niente delle basi psicologiche e percettive dell’arte.

F.C. C’è poi una relazione tra i tuoi studi, quelli di Gombrich sulla funzione simbolica nell’arte attraverso le immagini (in particolare nel Rinascimento) e quelli di Arnheim sulla fenomenologia della percezione visiva, sulla psicologia dell’arte. L’apertura delle frontiere verso un nuovo modo di conoscere ed esperire l’arte.

G.D. In fondo, prima della traduzione di Art and Visual Perception, il fatto percettivo come base della comprensione e della creazione artistica era completamente sconosciuto. Finalmente attraverso questo straordinario trattato si è indagata l’evoluzione che, dal bambino all’adulto, conduce alla concezione e alla comprensione della creazione artistica.

F.C. La tua illimitata curiosità è un po’ la tua benzina…

G.D. Indubbiamente continuo ad essere molto curioso, di qualsiasi evento.

F.C. Questa mattina abbiamo visitato la Fondazione Prada, un esempio di buona programmazione culturale che tu hai definito “urbanistica della moda”. Ci vuoi spiegare perché?

G.D. Questo complesso è qualcosa di molto diverso dal solito atelier, dalla solita “bottega”, è già concepito come rientrante nella distribuzione della città, fa parte della urbanizzazione. Direi che è un caso unico, dove la moda arriva ad integrarsi nell’urbanistica.

F.C. L’uomo del Novecento è stato l’uomo urbano per antonomasia. L’uomo contemporaneo continua ad esserlo?

G.D. Senz’altro gli uomini fuori dal contesto urbano oggi sono rari. I pochi anacoreti che vivono nei boschi o in cima alle montagne si contano sulle dita di una mano e, oltretutto, non contano. Oggi l’uomo non può più fare a meno della città, ma non sa come deve essere adoperata.

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