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Il ripudio e le colpe delle élite dietro il voto del 4 marzo

astensionismo

Vale la pena tornare su un aspetto non sufficientemente illuminato del risultato elettorale del 4 marzo, il suo sapore nettamente anti elitario. Più della metà dei voti sono, infatti, andati a due movimenti populisti e a due leader outsider rispetto a quel che resta dell’establishment, quasi orgogliosi anche della loro distanza siderale rispetto ad un diploma di laurea. È come se gli italiani, specie nel Mezzogiorno, ma non solo nel Mezzogiorno, visto il successo della Lega al Nord, ormai tendano a riconoscersi e a specchiarsi in politici affini a se stessi e non migliori e più autorevoli di sé, come avviene normalmente nel gioco della democrazia. Un voto però – sia chiaro – non solo di protesta ma anche in qualche modo di speranza, perché chi ha votato Salvini al centro-nord pensa così che sia più facile rimandare a casa gli immigrati o essere più “sicuri in casa propria”, e chi ha votato Di Maio, specie al Sud, conta sul reddito di cittadinanza e su altre promesse di benefici.

 Ma ciò su cui occorre interrogarsi è sulle ragioni di questo ripudio delle élite politiche che ha portato, ad esempio, in certi collegi, a bocciare ministri seri e competenti come Marco Minniti a favore di semi sconosciuti, che sembra rientrare in un fenomeno diffuso, specie nel Mezzogiorno, ma non solo al Sud, quel ripudio verso le élite in genere che è proprio dei nuovi populismi come ben spiegano nel loro bel libro recente, “Popolocrazia” (Laterza editore), Ilvo Diamanti e Marc Lazar. Credo che questo, in particolare, dipenda dalla cattiva performance e dalla pessima prova che ormai da vari anni, le élite politiche, burocratiche, imprenditoriali, bancarie, intellettuali stanno dando in questo nostro Paese. In Francia, invece, non molto tempo fa è avvenuto che, a fronte del rischio della vittoria elettorale del populismo di destra di Marine Le Pen, élite ben più efficaci e legittimate hanno fatto blocco e hanno individuato una nuova figura di leader come Macron, e si è evitato così un rischio che pur molti temevano. Per la Repubblica dello stivale, invece, le élite politiche sono giunte all’appuntamento elettorale debilitate da un Renzi azzoppato dopo un voto referendario sul quale mai c’era stata una riflessione autocritica e da quello che suonava un “eterno ritorno” di Berlusconi. Le élite bancarie, dopo le crisi di varie banche e  la caduta di immagine della Banca d’Italia sono in una delle fasi di maggior delegittimazione rispetto ai cittadini. Quanto alle élite imprenditoriali, non so da quanto tempo la Confindustria non presenta un progetto di politica economica per il Paese. Le élite burocratiche hanno perso in larga parte il senso di imparzialità come previsto dalla Costituzione, e vivono sotto le “tende” dei rispettivi ministri e sottosegretari dai quali dipendono grazie al malaugurato modello dello spoils system. Per le élite intellettuali vale in larga parte il motto di Ortega Y Gasset per cui “il sonno della ragione genera mostri”, se pensiamo al livello del confronto intellettuale dei quotidiani, escluso qualche editorialista del Corriere della Sera e poco più.

Visto che poi il cittadino si informa soprattutto tramite le televisioni, sappiamo tutti qual è il livello  del confronto politico intellettuale che emerge da buona parte dei nostri talk show, grazie soprattutto al livello intellettuale medio dei politici che partecipano e, per certi versi, quello di certi giornalisti. In queste condizioni, non poteva non maturare la fuga e il ripudio delle élite e la corsa al voto verso i nuovi leader giovani, populisti e senza laurea. E, guarda caso, vari esponenti dell’élite economiche, a cominciare da autorevoli esponenti di Confindustria o Confcommercio, stanno già cominciando a far propria il motto di Longanesi e hanno iniziato a “correre in soccorso del vincitore”.

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