L’intento della rubrica è organizzare pensieri per capire forza e fortuna delle parole nuove, quando davvero designano contenuti o trend innovativi. Ecco perché la seconda parola scelta è intrattenimento. Vecchia quanto il mondo ma, come vedremo, più espansiva che mai nel tempo in cui viviamo. Perché occorre dire subito che essa ha sempre rappresentato l’incrocio perfetto tra produzione culturale e aspettative dei pubblici (quello che oggi chiameremmo mercati dell’ascolto), con un’inevitabile proiezione sulla futura catena del valore economico dell’intrattenimento.
Qual è allora il valore più forte di questa straripante risorsa simbolica? Anzitutto, è altamente rivelatrice dei cambiamenti antropologici del soggetto moderno. Poche parole dicono altrettanto di noi e delle nostre aspettative. Dobbiamo ricordarlo: niente quanto l’interrogativo su cosa gli uomini cercano e trovano nella comunicazione costituisce un fil rouge altrettanto efficace per inseguire le novità rintracciabili nel cuore e nella mente degli uomini di oggi. Dunque l’intrattenimento è decisivo perché ci restituisce il peso degli altri due contenitori (informazione e fiction) con cui tradizionalmente leggevamo il trittico della comunicazione contemporanea.
Si tratta di una scansione ormai familiare ai broadcast e agli analisti, ispirata alla canonica dottrina BBC e al modo in cui essa ha accompagnato, con un efficace prontuario definitorio, la nascita dei grandi sistemi televisivi europei e in parte anche americani. Le dimensioni delle aspettative simboliche e degli immaginari collettivi sono sempre rivelatrici di cambiamenti profondi nei sistemi di attesa individuali, tanto più considerando che la comunicazione altro non è che lo scambio di simboli e messaggi tra gli esseri umani, e poi tra uomini e macchine.
Con l’impetuoso sviluppo delle protoindustrie culturali nel Novecento, il mondo dell’intrattenimento si è progressivamente specificato in due dimensioni abbastanza riconoscibili: il divertimento (i programmi complessivamente definiti evasivi) e tutto ciò che, invece, fa capo all’invenzione e dunque a forme di disancoramento dalla realtà. Dobbiamo, dunque, prendere atto di una sostanziale affinità semantica e funzionale tra intrattenimento e fiction, che potremmo chiamare fictiontainment. Siamo, così, di fronte a una semplificazione bipolare dei linguaggi comunicativi che la modernità spinge verso la specializzazione, esaltando una caratteristica forte nei sistemi di produzione culturale di massa e nelle istanze delle audience contemporanee, indicando un fenomeno nuovo: i momenti dell’impegno e del disimpegno non sono più in equilibrio nei lessici comunicativi della modernità. Sotto questo punto di vista, la fiction in tutte le sue declinazioni è decisamente l’area in cui immediata appare la proiezione dei bisogni di identità, rassicurazione e riconoscimento dell’uomo di oggi.
E questo vale ancor più per i soggetti elettivamente colpiti dalla convulsione della crisi, e cioè i giovani. Lo spettacolo dell’intrattenimento nella sua duplicità diventa dunque più prepotente nella comunicazione contemporanea e c’è da scommettere che crescerà progressivamente persino nelle diete comunicative delle piattaforme digitali. Ragionando in termini moderni sulla fortuna dell’intrattenimento, diventa interessante riconoscere che esso si compone di altri miti più o meno ragionevoli del contemporaneo: dal declino dei fatti all’indebolimento del pensiero critico, dalla disintermediazione che ovviamente stressa qualunque pensiero esperto all’individualismo fintamente paritario. A ben pensarci, l’intrattenimento si nutre come un parassita proprio della disintermediazione, che cambia profondamento gli equilibri della cultura di massa di oggi. Al punto di diventarne la colonna sonora.