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Generazione Z. Perché i giovanissimi sono un’incognita ancora da decifrare

Di Alessandro Rosina

Valori, atteggiamenti, visione del mondo e del proprio ruolo in esso emergono dopo gli anni della prima adolescenza, quando si lancia lo sguardo oltre le mura protettive della casa dei genitori. Si inizia a prendere in mano la propria vita, a pensare a scelte che mettono le basi del proprio futuro, a vivere e interpretare (senza mediazione delle agenzie di socializzazione primaria: famiglia e scuola) gli eventi del momento storico in cui si vive. È la fase che oggi sta attraversando, appunto, la generazione Z che arriva dopo i millennials.

In un primo tempo, i millennials sono stati indicati come la generazione Y, semplicemente perché arrivavano dopo la X che, com’è noto, in matematica corrisponde al simbolo usato come incognita. Il nome di generazione X era stato attribuito proprio per enfatizzarne la non chiara identità generazionale dopo quella molto marcata dei baby boomers (i giovani del ‘68 e dintorni). Con la generazione Z (i nati dal 1995 in poi, o dal 2000 come alcuni autori suggeriscono), si torna a una generica lettera dell’alfabeto. Questo può essere considerato un indizio di quanto poco ancora sappiamo di loro.

Qualche dato è però già rilevabile. Gli Zeta sono la seconda generazione a diventare adulta nel nuovo millennio, ma la prima a crescerci fin dall’infanzia. In comune con i millennials italiani hanno l’essere demograficamente pochi. Se sono oltre 800mila i 40enni nel nostro Paese (i non più giovani della generazione X), si scende attorno a 650mila tra gli attuali trentenni (i millennials ormai giovani-adulti), mentre sono meno di 600mila i 15enni.

Il rapporto con le nuove tecnologie è senz’altro uno dei principali elementi distintivi della generazione Z. I millennials vengono considerati i primi nativi digitali, anche se in realtà molti di loro hanno iniziato a usare il web dopo l’adolescenza. Gli Zeta sono, invece, la prima vera e propria generazione 2.0. C’è chi ha proposto di chiamarli iGeneration (iGen), digitarians o touch generation, proprio per enfatizzare l’importanza che l’influsso della tecnologia touch, dell’uso delle app e della connessione continua hanno sui nuovi giovani sin dall’infanzia.

Un cambiamento di grande impatto anche sulla loro formazione, con ricadute nelle modalità (formali e informali) di apprendimento, ma anche di ricerca di occupazione, oltre che sui processi di produzione e consumo. È spiccata per essi la necessità e la propensione a sperimentare, al learning by doing, in un mondo che pone sfide inedite e rispetto alle quali le generazioni precedenti non hanno soluzioni consolidate (o magari pretendono di averle ma non funzionano più).

È vero che vivono in un mondo che diventa sempre più complesso e in accelerazione continua rispetto ai cambiamenti. Possono però prepararsi per tempo, costruendo una maggior consapevolezza sia dei rischi sia delle opportunità delle grandi trasformazioni di questo secolo (globalizzazione, invecchiamento, rivoluzione digitale nel mondo del lavoro).

Formare e rafforzare conoscenze e competenze utili per governare il cambiamento è soprattutto ciò che serve a una generazione che arriverà a vivere in media oltre i 90 anni, che deve mettere le basi di una età adulta in un mondo molto diverso da oggi e inventarsi una fase anziana del tutto inedita rispetto al passato. È una generazione che deve confrontarsi già nel presente con rischi che possono esporre a persistenti fragilità: incertezza rispetto al futuro, genitori iperprotettivi, educatori maturi in difficoltà a capirne le specificità, a gestire come opportunità gli strumenti digitali e il multiculturalismo dentro e fuori le classi scolastiche. Possono quindi trovarsi con diversità che rischiano di alimentare diseguaglianze, esposizione alle insidie della Rete e cyberbullismo, senso di inadeguatezza, difficoltà di relazione, deficit di concentrazione, scoraggiamento. Capire di quali giovani è composta questa nuova generazione e aiutarli a dare qualità alla loro vita e al futuro comune è il compito che devono darsi le generazioni precedenti. L’impegno a dimostrare quanto valgono possono, però, mettercelo solo loro.

(Alessandro Rosina, Professore di Demografia e Statistica sociale e direttore del Laboratorio di statistica applicata alle decisioni economico-aziendali presso la Cattolica)

 

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