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Il futuro dell’energia, la fusione ed il ruolo dell’Italia. Perché l’intesa Eni-Mit conta

La notizia di queste ore è di quelle col botto: la fusione nucleare sarà disponibile entro i prossimi 15 anni! Rimbalza in queste ore su molti organi di stampa perché Eni, il colosso nazionale degli idrocarburi, controllato dal Tesoro e da Cassa depositi, ha deciso di investire 50 milioni di dollari nella spin off Commonwealth Fusion Systems (Cfs), che il Massachusetts Institute of Technology (Mit) ha costituito allo scopo.

Riprodurre sulla terra la reazione che alimenta le stelle, riuscire cioè a fondere insieme due nuclei di idrogeno liberando una grande quantità di energia, è l’obiettivo comune di molti esperimenti che, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, sono stati realizzati in molti centri di ricerca negli Stati Uniti, in Russia, in Giappone e in Europa. L’approccio più seguito consiste nel comprimere, all’interno di una camera da vuoto a forma di ciambella, l’idrogeno gassoso ad alta temperatura, quindi completamente ionizzato e perciò conduttore, con campi magnetici di intensità e forma opportuna (confinamento magnetico), in modo che coppie di nuclei possano collidere fondendosi in un nucleo di elio. Si tratta di una reazione nucleare, opposta a quella di fissione, oggi sfruttata nelle centrali elettronucleari, circa 4 volte più vantaggiosa della fissione in termini di energia liberata per unità di massa dei reagenti; inoltre il prodotto della reazione è un gas stabile (non radioattivo) come l’elio, mentre, nel caso della fissione i prodotti sono elementi artificiali radioattivi, da gestire con cautela; ancora, un futuro reattore a fusione produrrebbe in modo continuo il vapore necessario ad alimentare una turbina e quindi energia elettrica in modo controllato, analogamente alle attuali centrali termoelettriche; infine, il “combustibile” con cui alimentare un futuro reattore a fusione è un mix di deuterio (un isotopo dell’idrogeno) e litio, entrambi abbondanti negli oceani e nella crosta terrestre, tanto che le loro riserve stimate si ritengono sufficienti a soddisfare il fabbisogno di energia mondiale per alcuni miliardi di anni.

Tutte caratteristiche estremamente vantaggiose che, unitamente alla mancanza di possibili applicazioni militari delle tecnologie per gli esperimenti a confinamento magnetico, hanno favorito una piena collaborazione internazionale, sin dalla fine degli anni ‘50. A riprova di questo, la configurazione magnetica maggiormente adottata nei numerosi esperimenti esistenti al mondo, inclusi quelli al Mit, si chiama Tokamak, un acronimo utilizzato per la prima volta per un esperimento russo ideato tra gli altri da Andrei Sakharov, di cui furono resi noti tutti i dettagli costruttivi alla seconda Conferenza Internazionale sull’uso pacifico dell’energia atomica di Ginevra nel 1958, cioè in piena guerra fredda.

Dalla fine degli anni ‘50 ad oggi, sono stati fatti enormi passi avanti, i parametri di interesse fusionistico sono cresciuti di diversi ordini di grandezza, via via che nuovi esperimenti di dimensioni e prestazioni crescenti venivano realizzati e nuove conoscenze venivano acquisite sul comportamento dei gas ionizzati ad altissime temperature, più accurate configurazioni magnetiche venivano sperimentate, anche grazie all’impiego di magneti superconduttori e di sistemi di alimentazione e controllo più potenti e veloci, nuovi materiali venivano testati, potenzialmente capaci di resistere ai flussi termici e neutronici esistenti all’interfaccia tra la ciambella dove l’energia da fusione viene prodotta ed il “mantello” al suo esterno dove viene assorbita e portata all’esterno per la produzione di vapore e poi di energia elettrica.

Ogni salto in avanti ha sin qui richiesto il progetto, la costruzione e l’esercizio di macchine sperimentali, spesso più grandi, ogni volta più complesse e più costose in termini di tempo e di investimenti necessari. Cionondimeno, a distanza di 60 anni dai primi esperimenti, manca ancora un ulteriore passo per raggiungere prima l’equilibrio tra potenza di fusione generata e potenza immessa nella macchina dall’esterno, il così detto break-even energetico, e poi produrre più potenza di fusione di quanta non se ne immetta nella macchina. Sono questi gli obiettivi di Iter, il più grande esperimento Tokamak al mondo, al momento in costruzione a Cadarache, in Francia, con la partecipazione dell’Unione Europea, gli Usa, la Federazione Russa, il Giappone, la Corea, la Cina, l’India, il Canada. I risultati sperimentali di Iter, attesi negli anni tra il 2025 e il 2035, dovranno fornire tutte le indicazioni necessaire al progetto e costruzione della prima centrale dimostrativa a fusione; dopo la quale seguirà la fase di ottimizzazione del reattore che dovrà portare, ragionevolmente non prima degli anni ’70 di questo secolo, alla possibile commercializzazione di centrali a fusione affidabili, di facile gestione ed economicamente competitive.

Da quanto sopra si capisce che la comunità internazionale della fusione a confinamento magnetico è tutta impegnata in un percorso estremamente sfidante, ma ancora abbastanza lungo. E di questo percorso l’Italia è protagonista di primo piano, con i suoi talvolta vituperati Enti di Ricerca e le sue Università, spesso sottovalutate dai ranking internazionali, ed anche con il suo sistema industriale che è tra i principali fornitori di componenti per Iter. Infatti l’Italia è tra i pionieri della ricerca e delle tecnologie per la fusione: nel centro Enea di Frascati è in funzione da molti anni il Tokamak Ftu, con caratteristiche molto simili a quello in funzione presso il Mit, che non a caso si chiama AlCaTor (Alto Campo Toroidale, caso più unico che raro di acronimo italiano utilizzato per battezzare un esperimento americano); a Padova, presso il Consorzio di Ricerca Rfx, funziona con risultati eccellenti il più grande esperimento al mondo di tipo Rfp (una configurazione magnetica diversa dal Tokamak); sempre a Padova è in costruzione uno dei componenti chiave di Iter, il sistema di riscaldamento del gas ionizzato.

Per tutto quanto sopra, specialmente agli occhi (ed alle orecchie) della comunità scientifica, la parte davvero clamorosa della notizia di cui si diceva all’inizio, almeno per come è stata riportata dai media e dalle agenzie di stampa, è la prospettiva di rendere disponibile l’energia da fusione entro i prossimi 15 anni! È ovviamente auspicabile che gli esperimenti che la Commonwealth Fusion Systems ha in mente di realizzare aggiungano, nei prossimi 15 anni, importanti conoscenze al già ricco database della comunità scientifica internazionale, per esempio, come si legge nelle agenzie, sull’impiego di materiali superconduttori ad alta temperatura per la realizzazione di magneti ad alto campo. Estremamente improbabile -purtroppo è bene chiarirlo per evitare cocenti delusioni- che tra 15 anni, quale che sia lo sforzo profuso da Cfs, sia disponibile un prototipo, per di più di piccola taglia, di centrale a fusione.
Ci sono infatti ancora sul tappeto diversi problemi da risolvere, sia di natura tecnologica, sia relativi alla fisica del confinamento del gas ionizzato. Uno di questi, ed esattamente la messa a punto di materiali e soluzioni tecnologiche idonee a gestire in modo durevole quegli elevati flussi di energia al bordo della “ciambella”, di cui si diceva prima, verrà affrontato dall’esperimento Dtt, di cui pure abbiamo letto nelle ultime settimane. Si tratta di un esperimento ideato e progettato prevalentemente in Italia, finanziato con fondi nazionali ed europei, del costo di circa 500 milioni, per il quale Enea sta finalizzando la procedura di selezione del sito, alla quale hanno partecipato diverse regioni italiane. Nei prossimi 4-5 anni è prevista la sua costruzione, ed entro i prossimi 15 l’acquisizione di importanti risultati sperimentali.

L’impegno di Eni nello sviluppo di tecnologie innovative che soddisfino il fabbisogno energetico mondiale in modo sostenibile è meritorio e va a maggior ragione riconosciuta la lungimiranza del management di una società oil&gas che investe su tecnologie alternative di lungo periodo, come la fusione. Va anche detto che per alcune tecnologie energetiche l’erba del vicino è oggettivamente più verde, magari per il solo motivo che è stata seminata prima, concimata per tempo e regolarmente annaffiata, ed è pertanto comprensibile che gli investimenti privati vadano a quel prato, sul quale la falciatura è più sicura e più prossima. Altrettanto oggettivamente va detto che la fusione non è tra queste: infatti il prato della fusione è verde anche in Italia. C’è quindi da auspicare che, in un futuro prossimo, anche nel nostro Paese investimenti privati possano aggiungersi a quelli pubblici, magari chiarendo sin da subito la ripartizione della proprietà intellettuale delle possibili ricadute tecnologiche delle ricerche, per potenziare il contributo italiano verso il traguardo ambitissimo ma ancora lontano della produzione di energia elettrica continua, perenne, pulita, da fusione.

(Immagine news.mit.edu)



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