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I movimenti scandinavi per preparare il vertice Kim/Trump

Choe Kang-il, diplomatico di lungo corso e vice direttore dell’ufficio che si occupa delle relazioni con il Nord America al ministero degli Esteri di Pyongyang, è stato intercettato due giorni fa all’aeroporto internazionale di Pechino mentre si stava imbarcando su un volo verso la Finlandia. Quando un giornalista della Yonhap, la principale agenzia stampa sudcoreana, gli ha chiesto un commento sul suo viaggio ha risposto: “Non c’è niente da dire adesso, parliamo al rientro”.

In questi giorni si stanno tenendo degli interessanti meeting di pre-negoziato tra Stati Uniti e Corea del Nord che viaggiano in forma molto più discreta e lontana dalle cronache rispetto alle urla e al rumore dei missili che hanno finora riempito le prime pagine quando si è parlato di questo dossier; si scrive “pre” perché sono incontri di medio-alto livello che servono a preparare il campo al vertice dei vertici, l’incontro in programma nei prossimi mesi (forse maggio, secondo le indiscrezioni, ma non c’è niente di ufficiale ancora) tra il presidente americano Donald Trump e il satrapo nordcoreano Kim Jong-un (quello sì, da prima pagina).

Il centro dei negoziati in questo momento è la penisola scandinava, per questo il viaggio del notabile nordcoreano (e potrebbe diventarlo anche in futuro, si vedrà). Il ministro degli Esteri finlandese ha fatto sapere che la delegazione statunitense e quella nordcoreana si stanno vedendo a Helsinki: la notizia è stata poi confermata dalla diplomazia di Seul alla Cnn.

Si parla di de-nuclearizzazione: è in corso uno scambio di opinioni e un confronto su come intavolare un’eventuale road map. Sono incontri “track 1.5 “, ossia significa che vi prenderanno parte sia funzionari governativi che esperti esterni – un formato non nuovo (la forma “1” sono quelli governo-governo, la “2” è quella tra soli esperti).

Sulla rotta finlandese si sarebbe messa per esempio Kathleen Stevens, ex ambasciatrice degli Stati Uniti in Corea del Sud, che rappresenta una via di mezzo tra il funzionario e l’esperta (essendo entrambi), così come il collega Thomas Hubbard (che fu il capo negoziatore dell’Agreed Framework del 1994, tentativo vano di fermare in anticipo il programma nucleare del Nord); con loro ci sarebbero gli accademici Bob Carlin del Cisac di Stanford, John Delury della Yonsei University di Seul, and Karl Eikenberry ex ambasciatore in Afghanistan e direttore del Walter H. Shorenstein Asia–Pacific Research Center dell’Fsi di Standford.

L’incontro finlandese è stato preceduto da un altro giro colloquiale nordcoreano in Scandinavia: la scorsa settimana, a Stoccolma, era arrivato a sopresa il ministro degli Esteri della Corea del Nord, Riu Yong-Ho. La visita ufficiale della più importante feluca del regime cela un particolare non secondario: la Svezia è stato già il paese che ha curato i contatti diplomatici con il Nord per gli Stati Uniti (Washington usa spesso l’interposta diplomatica per mantenere aperto il dialogo con certi Stati con cui, diciamo così, l’empatia non è al massimo: per esempio, gli omaniti gestisco le relazioni americane con l’Iran).

“Siamo un paese militarmente non allineato che ha una lunga presenza in Corea del Nord. Con la fiducia di cui godiamo pensiamo di poter giocare un ruolo”, ha detto il ministro degli Esteri svedese, Stefan Lovfen, in una dichiarazione educata che potrebbe nascondere preparativi in corso (ma siamo nel campo delle ipotesi).

È interessante anche notare che sono gli svedesi a fornire i servizi consolari americani agli statunitensi sul territorio nordcoreano, e questo diventa un elemento di attualità. Ci sono infatti tre cittadini di nazionalità americana arrestati del regime nordcoreano che stanno diventato un ago della bilancia nel confronto diplomatico (i loro nomi sono: Kim Dong-chul, missionario statunitense nato in Corea del Sud arrestato nel 2015 con l’accusa di spionaggio; Kim Hang-sok, Kim Sang-duk entrambi dell’Università di Scienze e tecnologie di Pyongyang, arrestati lo scorso anno per sospetti atti ostili). Una fonte anonima “dai colloqui” ha spiegato alla Cnn che “qualunque sviluppo sul fronte di questi detenuti sarebbe di enorme importanza per gli Stati Uniti”: un catalizzatore, insomma.

Ovviamente gli americani mantengono tutte le intenzioni di spingere forte verso l’inizio di un percorso che congeli, o meglio smantelli, il programma atomico nordcoreano, mentre la Corea del Nord cerca soluzioni intermedie per mantenere aperte le porte dei suoi sistemi.

Di sicuro c’è un fatto: la mediazione, fortemente voluta dal presidente sudcoreano Moon Jae-in, ha portato Kim a dover scoprire le carte – tra l’altro, ad aprile è programmato un altro vertice intercoreano. Infatti, se è vero che Pyongyang ha sentito la necessità di costruire la Bomba per difendersi dall’aggressività statunitense, allora l’apertura di Trump al dialogo è un all in (in parte inaspettato, d’istinto, secondo quanto hanno rivelato le fonti interne alla Casa Bianca ai media americani). Una mossa che fa sembrare Washington non aggressiva, e dunque elimina il presupposto nordcoreano all’atomica.

Intervistato dalla CBS. il ministro degli Esteri sudcoreano ha detto che Kim è mosso da “sincera volontà” al dialogo, ma già in passato altri negoziati sono saltati, e nessuno può credere fino in fondo alla bontà di questa nuova ondata diplomatica (anche perché è difficile dimenticare che fino a pochi mesi eravamo sull’orlo di una guerra, con il Pentagono che discuteva quasi apertamente della possibilità di attaccare il Nord, e Kim che testava missili minacciosi in direzione americana).

 

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