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Protezionismo e sicurezza. Quale strategia per gli asset nazionali?

Protezionismo

Nel mondo globalizzato, soprattutto con il crescente protezionismo, la geoeconomia ha occupato il ruolo un tempo svolto dalla geostrategia. L’ordine militare è finito, ma non è stato sostituito da uno economico globale. Domina la competizione economica. In essa gli Ide (Investimenti diretti all’estero), specie quelli finanziati dai “fondi sovrani di ricchezza” svolgono un rilevante ruolo sulla potenza degli Stati.

I Paesi hanno sempre stimolato l’economia, non solo per finanziare la potenza militare, ma anche per garantire la loro sovranità effettiva – ad esempio con la disponibilità di materie prime strategicamente critiche. Basti ricordare le teorie dell’autarchia. Nel dopoguerra hanno prevalso internazionalismo liberale e multilateralismo; dopo la fine della Guerra fredda, la globalizzazione. La teoria classica del commercio internazionale è espressione di tale tendenza. Per essa gli Ide vanno comunque privilegiati. L’internazionalizzazione, l’estensione degli spazi di mercato, i transfer tecnologici e così via sono ritenuti essenziali per la competitività dei sistemi-Paese.

Tali assunti hanno avuto grande favore in Paesi, come l’Italia, con economie export-led e con insufficienti investimenti industriali. Il nostro stock di Ide è pari al 18% del Pil. Unitamente alle partecipazioni azionarie in migliaia di nostre aziende, gli Ide occupano quasi un milione di persone, con un fatturato di 500 miliardi di euro.

L’internazionalizzazione non può essere limitata al commercio e alla creazione di posti di lavoro. Va estesa ai capitali, alle tecnologie e alle politiche aziendali, cioè al management. Deve considerare vantaggi e rischi anche in termini di mantenimento nel Paese della fascia più alta della “catena di valore”, come ho sostenuto con Fernando Napolitano nel 2005 (Interessi nazionali: metodologie di valutazione, Franco Angeli). I vantaggi degli Ide, primi fra i quali la maggiore disponibilità di capitali e l’internazionalizzazione e l’accesso a tecnologie avanzate, comportano inevitabilmente una diminuzione di sovranità e rischi d’intenti predatori. Tale inconveniente non esiste per gli “investimenti di portafoglio”, limitati all’acquisto di azioni, per l’Ocse fino al 10% della proprietà.

Quando hanno potuto, gli Stati più ricchi e potenti come il Regno Unito nel xix secolo, hanno utilizzato l’economia come arma per evitare il sorgere di industrie competitrici. Sono stati quindi liberisti, mentre gli Stati deboli erano obbligati a essere protezionisti. Basti ricordare le teorie di Hamilton per gli Usa e di List per la Germania sulle barriere da porre alla penetrazione commerciale britannica per permettere la nascita di industrie nazionali.

Nel periodo in cui ha dominato il liberalismo economico, le barriere e condizionalità poste dagli Stati agli Ide erano ridotte al minimo, essenzialmente a motivi di sicurezza contro il transfer di tecnologie strategiche o un’eccessiva dipendenza energetica dall’Urss. Gli Ide venivano incentivati, in Italia, da Invitalia e dall’Ita, agenzie del Mise e del Mef. Nelle privatizzazioni degli anni Novanta, lo Stato si limitava al mantenimento di una Golden share, pari all’incirca al 30% della proprietà.

Oggi, prevale l’idea che gli Ide vadano monitorati poiché potrebbero erodere gli spazi di sovranità effettiva. Per questo i loro effetti economici, sociali, tecnologici e finanziari vanno approfonditi. Se necessario (e anche possibile, per evitare ritorsioni) vanno vietati, limitati o condizionati. I settori considerati strategici si sono dilatati. Non più solo sicurezza e rifornimenti critici, ma anche trasporti, telecomunicazioni, gioielli industriali e tecnologici, ecc. Le restrizioni e condizionalità valgono anche per alleati e potenziali nemici. Lo si è visto nei casi dei negoziati del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip) e di Fincantieri-STX.

Gli strumenti di controllo si sono diversificati. Dalla Golden share, prevista dalle norme del 1992, si è passati – con quelle del 2012 e del 2015 – al Golden power, cioè ai poteri speciali del governo di vietare, limitare e porre condizionalità agli Ide, nonché nel 2017 alla proposta italo-franco-tedesca di emanare una normativa comune Ue. Tale richiesta è derivata dall’acquisizione di asset tecnologici e dalla costruzione da parte di Pechino di infrastrutture in Europa orientale e balcanica. Si teme che esse vengano utilizzate da Pechino per espandersi nei ricchi Stati dell’Europa occidentale. Poiché gli interessi fra est e ovest dell’Ue sono differenti è improbabile che possa essere approvata una normativa Ue. Essenziale rimarrà il rafforzamento delle capacità nazionali per esercitare il Golden power, come invocato dal ministro Calenda per il caso Telecom.



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