In queste ultime ore il barometro del rapporto tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini segna tempesta. Scambi di accuse, minacce, invettive reciproche. Se sono reali o si tratta solo di un po’ di teatro per rendere più credibile un accordo già chiuso lo si capirà da martedì prossimo, quando al Quirinale inizieranno le consultazioni per il governo. Reggerà il patto generazionale tra i due leader uscenti vincitori dalle urne? Molte distanze tra loro restano, ma ci sono anche molti punti di contatto. Proviamo a metterli sulla bilancia, partendo dai fattori di divisione.
COSA LI DIVIDE
Il terreno più evidente di lontananza è il programma, ovvero come far conciliare la flat tax con il reddito di cittadinanza. E più in generale come coniugare in un’agenda governativa gli interessi del Nord imprenditoriale sempre più lanciato verso l’Europa e un Mezzogiorno ancora molto indietro dove il tasso di disoccupazione resta tra i più alti del continente. Non si può dire che il voto del Mezzoggiorno per i pentastellati sia dovuto solo alla proposta del reddito di cittadinanza, ma sicuramente dal Sud Italia si è levato un grido di dolore e di sfiducia verso la politica che ha investito di notevole responsabilità i pentastellati. Riusciranno a farsene portavoce all’interno di un accordo con la Lega?
Altro fattore di divisione è Silvio Berlusconi. Salvini ha tutto l’interesse a non spaccare il centrodestra, coalizione di cui è già il leader, forte del 37% preso alle elezioni. Per Di Maio, però, il Cavaliere è quello che era la criptonite per Superman: un’alleanza di governo con Forza Italia rischia di costare caro al M5S dal punto di vista elettorale, dato che buona parte dei suoi elettori arrivano da sinistra. La questione, secondo molti osservatori, è però superabile con un’intesa M5S-centrodestra in cui Forza Italia sarebbe confinata a un appoggio esterno o a un ingresso nell’esecutivo limitata ad esponenti di area. Questo il sacrificio che Salvini potrebbe chiedere a Berlusconi e quest’ultimo, messo alle corde, potrebbe fare buon viso a cattivo gioco.
Ultimo punto di contrasto, come si è visto nelle ultime ore, è la poltrona di Palazzo Chigi, reclamata da Salvini, come leader della coalizione più votata, e da Di Maio, come leader del partito con più consensi. Un’ambiguità, quest’ultima, dovuta a una legge elettorale proporzionale che si porta dietro una quota maggioritaria, come ha fatto notare in più occasioni il costituzionalista Michele Ainis. Lo scoglio potrebbe essere superato grazie a una figura terza a Palazzo Chigi, con Di Maio e Salvini entrambi vicepremier. Una figura che goda dell’estrema fiducia di entrambi, una sorta di Gentiloni grillo-leghista.
COSA LI UNISCE
A pesare di più sul piattino della bilancia sono però i fattori di unione. Innanzitutto l’aura positiva che trasporta entrambi: sono giovani (Di Maio addirittura giovanissimo), hanno appena vinto le elezioni con risultati straordinari e hanno una gran voglia di entrare nella stanza dei bottoni. Insomma, se l’occasione fa l’uomo ladro, in questo caso si può dire che l’occasione rende entrambi decisi, abili e scaltri nel raggiungere il comune obbiettivo: andare al governo. Un antipasto si è visto con l’elezione dei presidenti delle Camere. La sensazione è che in politica, quando passano certi treni, è meglio prenderli, senza rinviare a un domani che, per loro, rischia di nascondere più di un’insidia.
Altro punto in comune è che un asse Salvini-Di Maio potrebbe avere come conseguenza l’accelerazione del declino dei due leader che fin qui l’hanno fatta da padrone: Berlusconi e Renzi. Un Salvini al governo avrebbe gioco facile nel proseguire l’Opa leghista su Forza Italia, blindando ancor di più il suo ruolo di vero leader del centrodestra. Da questo punto di vista le 81 primavere di Berlusconi giocano a suo favore. Dall’altra parte, invece, un Di Maio forte, ma magari anche dialogante con il Pd rafforzerebbe chi, tra i dem, spinge per aprire un canale con i grillini, ovvero la minoranza del partito in asse con i renziani soft, mentre contrarissimo a qualsiasi apertura è Renzi. In generale, più si rafforzano i grillini, più cala il Pd. E, con esso, il potere del suo ex segretario.
Un terzo fattore che gioca in favore di entrambi è la voglia di cambiamento nel Paese unita allo sdoganamento dei movimenti populisti e destrorsi in tutta Europa. Dopo l’alternanza Berlusconi-Prodi, il governo tecnico di Mario Monti ed esecutivi in cui la sinistra ha governato col Cavaliere, prima, e con pezzi di centro, poi, il responso delle urne è che nel Belpaese si è aperta una fase nuova e gli italiani hanno voglia di provare qualcosa veramente diverso. Anche se il nuovo passa per un movimento i cui rappresentanti hanno poca esperienza non solo politica o istituzionale, ma pure professionale. Oppure per un partito, la Lega, che si contraddistingue come forza espressamente di destra, sovranista, anti-europeista se non addirittura filo-russa e lepenista. Il voto del 4 marzo ha stabilito che gli italiani hanno sdoganato Di Maio e Salvini, al contrario di buona parte dell’establishment nostrano ed europeo. La strana coppia, dunque, può funzionare. Almeno per un po’.