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Perché il voto al Sud reclama politiche di sviluppo e non solo assistenzialismo

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Le figure allegate disegnano la relazione oggettiva tra il voto al M5s nelle diverse regioni e alcune caratteristiche socio-demografiche degli stessi territori come il Pil per abitante, il tasso di disoccupazione, il reddito disponibile delle famiglie consumatrici. Con quest’ultimo parametro viene confrontato anche il voto della Lega. Ne risultano due andamenti di segno opposto che farebbero la gioia di ogni statistico per la loro chiarezza. Tanto il voto alla Lega cresce in proporzione all’incremento del reddito delle famiglie, quanto il voto al M5s cresce in proporzione al grado di malessere sociale. L’Italia è sempre stata caratterizzata da un ampio dualismo territoriale ma, tradizionalmente, le aree economicamente più arretrate hanno sostenuto in prevalenza le forze politiche di governo.

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Che cosa è intervenuto nella relazione tra la dimensione pubblica e quella civile perché si producesse una reazione così netta? Qui si azzarda una tesi che meriterà altri riscontri. In Italia come altrove in occidente, le forze politiche “progressiste” sono state affascinate dalla razionalità delle élite cosmopolite e dalla loro sconfinata fiducia nelle progressive sorti del libero commercio globale. In questi anni la politica economica del governo si è largamente concentrata sulla industria internazionalizzata ed esportatrice affinché potesse ulteriormente competere e crescere. È stata certamente una scelta condivisibile anche se l’eccessivo grado di concentrazione delle risorse e dell’impegno pubblico si è risolto in danno delle aree più deboli il cui ritardo si è pesantemente accentuato. Persino la straordinaria spesa di circa 12 miliardi per incentivare i contratti di lavoro permanenti ha aiutato le imprese in proporzione alla loro capacità di crescita con evidenti effetti di localizzazione. Agli altri, ai perdenti, sono state rivolte politiche sociali di sostegno al reddito tra “restituzione” degli 80 euro, ammortizzatori, più lunga indennità di disoccupazione, nuova misura per la povertà. Politiche sociali ma non politiche di sviluppo.

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Basti pensare al crollo degli investimenti pubblici tra tagli di bilancio e vincoli indotti dal codice degli appalti. Eppure l’Italia, e ancor più il suo mezzogiorno, sono carenti dal punto di vista della dotazione infrastrutturale e ora soffrono quella più ampia crisi del settore delle costruzioni che ha avuto origine anche dalla smodata tassazione locale della proprietà immobiliare. Si consideri ancora il disastro dell’Ilva di Taranto che non ha eguali in alcun sito siderurgico europeo perché la politica si è piegata ad una indagine giudiziaria già nella fase indiziaria. Insomma, nel complesso, sono mancate adeguate politiche di sviluppo per le aree tradizionalmente deboli e per i territori di nuova deindustrializzazione. La straordinaria battaglia prodottasi sullo stabilimento Embraco nel periodo elettorale è stata controprova di un sentimento di difesa di ciò che c’è in assenza di alternative. Eppure, accanto all’industria che si innova e conquista mercati, vi sono straordinarie possibilità di crescita del terziario ovunque, dalla logisticaè  e distributiva che si deve dislocare oggi in prossimità dei consumatori (e non più dei produttori), alla filiera turistica che valorizza il primario, ai servizi di cura della persona. Alla base del voto grillino non vi è solo la speranza di un reddito senza lavoro ma anche il desiderio di opportunità di crescita e di occupazione diffusamente distribuite. Ed è questo desiderio che merita l’attenzione e l’impegno di tutti.

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