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MbS e Trump fanno la faccia dura contro l’Iran ma guardano all’equilibrio del Golfo

In un op-ed sul Washington Post, Khalid bin Salman, ambasciatore saudita a Washington, scrive: “Vediamo nuove opportunità per rivitalizzare l’alleanza di vecchia data tra gli  Stati Uniti e l’Arabia Saudita […] La relazione oggi è più forte, più profonda e più multidimensionale che mai, e si estende oltre l’Oval Office, le sale del Congresso, le basi militari e le piattaforme commerciali”. E ancora: “Il Regno dell’Arabia Saudita si sta riformando e il nostro dinamismo porterà le relazioni tra Arabia Saudita e Stati Uniti a nuove vette”.

È un commento programmatico che accompagna il lungo viaggio americano di Mohamed bin Salman (MbS), erede al trono saudita e policy-factotum di Riad, che, come scrive il suo ambasciatore, sta rendendo dinamico il regno avvolto per anni da un soporifero status quo. La politica di MbS è un mix aggressivo di cambiamento, rinnovamento, differenziazione, asserzione “che mira a trasformare la nostra economia e la società” attraverso la spinta del più grande gruppo demografico saudita, i giovani, che si rispecchiano nell’azione di governo dell’erede al trono (poco più che trent’enne), e anzi chiedono di più.

Spalle protette dal consenso popolare, e fianco coperto da operazioni di epurazione interne – fatte passare anche sotto l’etichetta populistica (si passi il termine) della lotta alla corruzione e della rottamazione tra i gangli del potere – MbS ha creato i presupposti per cambiare l’Arabia Saudita per come la conosciamo. Ma per continuare nel suo percorso, ha necessariamente bisogno di sostegno esterno: e gli Stati Uniti, storici alleati, sono fondamentali.

Da qui la necessità del viaggio a Washington, preceduto da una tappa londinese dove ha trovato il consenso del più eccezionalista paese europeo, e da un’altra visita al Cairo, perché gli equilibri regionali sono altrettanto fondamentali.

Se si pensa alla situazione interna, bin Salman ha davanti a sé una situazione frizzante (nel regno, come racconta David Ignatius sempre sul WaPo, le donne discutono su che auto compreranno quando a giugno si vedranno ratificato definitivamente il diritto di guidare, una concessione che fino a poco tempo fa era impensabile), ma le riforme profonde, quelle all’economia per intenderci, sono ancora in fase di pianificazione (tra queste: la privatizzazione di una quota del gigante petrolifero Saudi Aramco, che ancora non è definita e slitterà probabilmente di un altro anno).

Ma è all’estero che MbS trova le maggiori difficoltà: la sua prima avventura geopolitico-militare è iniziata tre anni fa, l’operazione militare “Tempesta decisiva” in Yemen a sostegno del governo amico di Sanaa, finito vittima dell’avanzata dei ribelli Houthi. Inutile nascondere che l’impresa armata non sia stato un proxy di confronto con l’Iran, amico dei ribelli yemeniti e soprattutto nemico esistenziale saudita, contro cui MbS cerca sostegno, soprattutto a Washington.

L’amministrazione Trump tende a non farglielo mancare (anche perché secondo i media americani quando a novembre scorso bin Salman ottenne ufficialmente la legittimazione al superamento dello zio in linea dinastica, Trump commentò abbiamo piazzato al potere “il nostro uomo”). La Casa Bianca d’altronde vede Teheran come una delle principali minacce globali; nello specifico della crisi yemenita, i sauditi temono che un’eventuale pace senza che gli Houthi depongano le loro armi pesanti trasformerebbe il gruppo ribelle in una realtà stato-nello-stato simile agli Hezbollah in Libano (e qui la comunione di vedute e preoccupazioni con Israele è forte, compresa e condivisa). E Washington contribuisce in parte con la copertura politica alla guerra, per un’altra parte continuando ad armare i sauditi (e chiudendo un occhio sulle vittime civili).

La visione americana è probabilmente esasperata dalle pressioni degli alleati, primi su tutti di certo i sauditi, ma anche emiratini, egiziani e israeliani: nell’ottica semplificata della politica internazionale a là Trump, se l’Iran è il nemico e gli altri tre protagonisti mediorientali sono amici, allora val la pena metterli tutti insieme contro l’altro. Così sembra: Arabia Saudita e Israele si parlano come non mai, Egitto e Israele hanno chiuso un accordo strategico energetico, Egitto e Emirati Arabi sono sulla stessa traiettoria in molti degli affari nordafricani (vedere per esempio la Libia).

E Trump non perde occasione per confermare il proprio supporto a questo allineamento di satelliti semplificabile in uno scambio di favori e accortezze. Tra i risultati di questa politica: con MbS seduto nelle stanze della Casa Bianca, il presidente Donald Trump martedì ha augurato un buon Nowruz, il nuovo anno persiano, a tutti gli iraniani, ricordando però che purtroppo il paese è comandato da “governanti che non servono la gente, ma se ne servono” e da entità come il corpo militare religioso dei Guardiani definito un “esercito ostile che brutalizza e ruba al popolo iraniano per finanziare il terrorismo all’estero”.

E poi attacchi sulla corruzione, sulla mancanza di diritti, sullo spregio della democrazia da parte dei centri di potere iraniani. Da notare che in un anno esatto il tono delle parole di Trump nel messaggio per il Nowruz è diventato notevolmente più aggressivo (lo scorso anno ricordò gli iraniani come una delle comunità di successo emigrate negli Stati Uniti): e forse questo è frutto dell’inasprimento dei contrasti tra Teheran e Riad (dove con Riad si intende il Golfo, con tutti i satelliti connessi, Emirati, Egitto).

Nel corso di quest’ultimo anno, infatti, MbS (con l’aiuto di Abu Dhabi) ha alzato il livello del contrasto all’Iran: ha, per esempio, posto in isolamento diplomatico il Qatar perché troppo morbido con gli ayatollah, ha creato una situazione di pressione spingendo alle dimissioni il primo ministro libanese, ha stretto un’alleanza discreta con Israele nell’ottica del nemico comune.



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