L’inversione di rotta necessaria nelle politiche per il Mezzogiorno è talmente radicale da spaventare qualunque classe politica.Si tratta non solo di disfarsi di idee che si sono dimostrate prive di qualunque sostanza, ma anche di riqualificare la burocrazia che di quelle idee si è nutrita; di smantellare pratiche clientelari che a partire da quelle idee si sono formate; di contrastare posizioni di rendita che all’ombra di quelle idee si sono consolidate; di porre le Regioni meridionali di fronte alla loro inefficienza. Un programma forse troppo ampio per le deboli classi dirigenti che abbiamo sperimentato recentemente. Ma è un programma sempre più ineludibile.
Sono ormai vent’anni che, a ogni appuntamento elettorale, il Paese vota per l’opposizione e lo fa con il determinante contributo del Mezzogiorno. Nel 2018 la tendenza è stata ancora più netta, ma non si tratta di un fenomeno nuovo. Del resto, incapaci di rinnovare il loro pensiero, da ormai più di 20 anni governi di ogni colore non hanno fatto altro che proseguire (con aggiustamenti solo marginali) nelle sciagurate politiche regionali avviate circa 25 anni fa. Politiche che definire fallimentari è un eufemismo. E il voto meridionalenon fa che ricordarcelo. Ogni volta. E, se non cambieremo strada, lo farà anche la prossima.
Considerando definitivamente chiusa l’epoca del dirigismo economico e della cassa per il Mezzogiorno, lo Stato ha davanti a sé un’insperata occasione per mettere la parola fine alle politiche di coesione. Uno smantellamento sul quale anche l’Europa oggi concorda: fonte di uno sperpero inaccettabile di decine di miliardi, frutto di una risibile lettura della realtà, canale implicito di selezione di una classe dirigente inadeguata. La riflessione critica europea sulle politiche di coesione dimostra chiaramente come spesso e volentieri sia proprio l’Europa a indicare la strada all’Italia e al Mezzogiorno. La Commissione europea ha invece re-entemente proposto di destinare i fondi strutturali in via prioritaria all’attuazione di riforme strutturali in grado di incidere sui tassi di crescita delle economie nazionali. Immaginiamo, allora, un piano nazionale inteso a garantire il raggiungimento, in tutte le aree del Paese, di livelli infrastrutturali pienamente paragonabili a quelli prevalenti altrove in Europa. Un piano di cui, si noti, finirebbero per beneficiare prevalentemente, ma non esclusivamente, le Regioni meridionali e insulari.
Secondo le valutazioni Svimez la dotazione infrastrutturale meridionale è oggi particolarmente carente per quanto riguarda i nodi (porti, aeroporti, terminal intermodali, interporti) e pari a poco più del 50% della dotazione nazionale. Ma nel segmento delle reti è l’Italia nord-occidentale a registrare una relativa carenza. Il piano sarebbe dunque nazionale, pur se maggiormente focalizzato sulle Regioni più deboli. E andrebbe associato a un intervento temporaneo in grado di compensare i costi sopportati dalle imprese in aree diverse del Paese, in conseguenza del livello diverso di infrastrutturazione.
Ad esempio, una differenziazione geografica dell’aliquota dell’imposta sulle persone giuridiche (Ires) che rimarrebbe pari all’odierno 24% nelle Regioni pienamente infrastrutturate per attestarsi su livelli significativamente inferiori nelle Regioni in ritardo dal punto di vista infrastrutturale. Accanto al superamento delle politiche di coesione, è necessario smontare la seconda grande ipocrisia meridionale. Decine di migliaia di giovani, spesso formati, lasciano ogni anno il Mezzogiorno. Bene, delle due l’una: o abbattiamo il totem del contratto collettivo nazionale consentendo ai salari di adattarsi pienamente alla produttività (inferiore, nel Mezzogiorno, per circa il 30%), oppure smettiamo di lamentarci per i giovani che lasciano il sud e organizziamo al meglio i flussi migratori dei giovani meridionali. Non si può imporre al mercato del lavoro una uniformità che è assente nei fatti e poi stracciarsi le vesti per gli esiti. Purtroppo, il recente accordo fra sindacati e Confindustria segnala con chiarezza come questi esiti – al di là delle parole di circostanza – siano alla fine tutt’altro che sgraditi alle parti sociali che pure sono spesso le prime a lamentarsene.