Cade il tabù di un sindacato “vero” per i militari anche se ora è indispensabile l’intervento del legislatore. È storica la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato parzialmente fondata la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 1475 del Codice dell’ordinamento militare (il decreto legislativo n. 66 del 2010) nella parte in cui vieta ai militari di costituire associazioni professionali a carattere sindacale. Resta invece il divieto di aderire ad altre associazioni sindacali.
La Corte passa la patata bollente al Parlamento perché, si legge in una breve nota diffusa al termine della Camera di consiglio, “la specialità di status e di funzioni del personale militare impone il rispetto di ‘restrizioni’ secondo quanto prevedono l’art. 11 della Corte europea dei diritti dell’uomo e l’articolo 5 della Carta sociale europea”. Queste restrizioni, “in attesa del necessario intervento del legislatore, allo stato sono le stesse previste dalla normativa dettata per gli organismi di rappresentanza disciplinati dal Codice dell’ordinamento militare”. L’art. 11 della Cedu, infatti, prevede l’esercizio dei diritti di associazione e di costituzione di sindacati, ma al secondo comma specifica che “il presente articolo non osta a che restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato”. A sua volta, l’articolo 5 della Carta sociale europea che regola i diritti sindacali precisa che “il principio dell’applicazione di queste garanzie ai membri delle forze armate e la misura in cui sono applicate a questa categoria di persone è parimenti determinata dalla legislazione o dalla regolamentazione nazionale”.
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata l’anno scorso dal Consiglio di Stato sostenendo che l’art. 1475, comma 2, del Codice dell’ordinamento militare contrasterebbe con l’art. 117 della Costituzione, comma 1, in base al quale la potestà legislativa è esercitata dallo Stato non solo nel rispetto della Costituzione, ma anche “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Con un’ordinanza del 30 marzo 2017 la quarta sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Filippo Patroni Griffi, aveva sollevato due questioni. La prima per contrasto di quel comma della Costituzione con gli articoli 11 (libertà di riunione e di associazione) e 14 (divieto di discriminazione) della Corte europea dei diritti dell’uomo dopo due sentenze della Cedu del 2014 per vicende francesi: secondo i giudici amministrativi “la restrizione dell’esercizio del diritto di associazione sindacale dei militari non può spingersi sino alla negazione della titolarità stessa di tale diritto”. La seconda per contrasto con l’art. 5 della Carta sociale europea perché la stessa Carta “consentirebbe solo limitazioni della libertà sindacale per i militari e non una sua radicale obliterazione”.
La vicenda nacque dal ricorso del brigadiere della Guardia di Finanza Francesco Solinas, membro dell’associazione “Solidarietà, diritto e progresso”, dopo che gli era stata negata “l’autorizzazione a costituire un’associazione a carattere sindacale fra il personale dipendente del ministero della Difesa e/o del ministero dell’Economia e delle Finanze o, in ogni caso, ad aderire ad altre associazioni sindacali già esistenti”.
Ci sono, quindi, due punti fermi: i militari hanno diritto ad avere un sindacato che sia qualcosa in più degli attuali Cocer, gli organismi di rappresentanza, e nello stesso tempo qualcosa in meno dei sindacati tradizionali proprio per la specificità del loro lavoro. Il non facile compito del Parlamento sarà proprio quello di stabilire i confini perché la svolta indubbiamente storica non si traduca nei fatti in eccessivi poteri sindacali che nel mondo in divisa potrebbero causare seri problemi. Toccherà agli stessi Cocer dimostrare senso di responsabilità.