La seconda tornata di consultazioni si è conclusa. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dovuto, con un evidente rammarico, decretarne il fallimento.
La speranza che il tempo portasse consiglio è stata spenta, a ben vedere, dal teatrino ieri messo in piazza sia dal M5S e sia da Silvio Berlusconi. Non che quest’ultimo avesse torto nell’essere risentito contro l’atteggiamento tenuto dai grillini, veramente spiacevole, arrogante e poco costruttivo. Ma si è trattato di una specie di involuzione di tutti – compreso il Pd –, tra veti e ricatti, verso l’infantilismo più puerile.
È fin troppo chiaro che né il centrodestra, né i Cinquestelle e tanto meno il Pd abbiano voglia di governare insieme. Non lo desiderano per motivi molto diversi ma concordi: i democratici perché si ritengono umiliati dal voto, i grillini perché paventano la perdita della propria base ad andare con Forza Italia, il centrodestra – non solo Berlusconi ma anche la Lega – perché il proprio programma non potrà essere attuato come si vorrebbe.
Quello che emerge, tuttavia, dalla breve dichiarazione di Mattarella è l’urgenza che il Paese ha di dover disporre di un esecutivo, indispensabile per la difesa dei nostri interessi internazionali, nonché la necessità che la soluzione della crisi preferibilmente arrivi al più presto e dall’interno.
Tra le righe il Presidente ha fatto capire di voler dare dei tempi supplementari alle forze politiche per giungere ad un accordo, tre giorni al massimo, e che comunque, in finale, egli stesso prenderà l’iniziativa, a quel punto andando in una direzione non auspicata neanche da lui, invero, e necessariamente esterna rispetto alle stesse dinamiche dei partiti.
Il primo passo sarà, probabilmente, un incarico esplorativo istituzionale ad Elisabetta Cancellati o a Roberto Fico, il secondo una personalità di altro tipo. Il calendario insomma è molto chiaro, al contrario della soluzione che ancora non si intravvede.
La democrazia vive, in un sistema parlamentare, soltanto se i gruppi politici hanno voglia di governare, passando sopra alle relative identità: se cioè sono in grado di mettere a rischio il proprio consenso, aprendo un percorso di responsabilità condivisa che evidentemente costa molto in termini di popolarità.
In Italia governare è dura e fa male, e i giovani leader soprattutto, Luigi Di Maio in specie, lo sanno benissimo. La cosa importante è capire la causa prima di questo stallo. La responsabilità ricade pesantemente sui Cinquestelle.
Vi sono due errori di fondo presenti nella linea Pentastellata. Il primo, celebrato sin dall’inizio, è accreditarsi unilateralmente e senza i numeri sufficienti (34%) come i vincitori che hanno diritto a tutto. Non sono andate così le cose, ed è bene scendere dal podio quando non si ha vinto. Il secondo è l’intervento continuo sugli altri, ossia sulle dinamiche interne di PD e Centrodestra. In democrazia, e su questo Berlusconi ha perfettamente ragione, nessuno dice agli altri cosa fare di se stesso, e nessuno può mettere dei divieti e giudicare la legittimità delle altrui scelte e alleanze.
La ragione dell’impasse non è dovuta, certamente, a questo cattivo comportamento, ma al risultato elettorale, anche se l’ostinazione grillina contro Forza Italia sta provocando, nondimeno, una seria difficoltà al presidente della Repubblica e un grave danno all’economia nazionale.
Forse per Di Maio e i suoi, soprattutto per Alessandro Di Battista (convitato di pietra tra i falchi) si tratterebbe di considerare che questo perseverante atteggiamento estenuante contro i berlusconiani potrebbe sì rinsaldare la propria base, ma anche far perdere quei consensi più larghi acquisiti che soli giustificano una vittoria tanto grande incassata il 4 marzo.
L’impopolarità, d’altronde, è strana. Quando impedire la nascita di un governo diventerà qualcosa di sensibile nei portafogli della gente, allora per i grillini sarà un serio problema difendere l’intransigentismo di questi giorni.
Ragione vuole, in definitiva, che Berlusconi, certamente, ma soprattutto Di Maio, in modo comprensibilmente diverso, facciano un medesimo passo indietro e rendano possibile a Mattarella poter dare un incarico politico ad una maggioranza elettorale di formare un governo. In caso contrario non ci si lamenti poi che il Paese è commissariato dal Quirinale e i poteri internazionali ci consumano i risparmi.
Con Di Maio, tra l’altro, saremmo al secondo caso di autorottamazione in pochi anni.