Skip to main content

Il protagonismo francese e il disinteresse italiano sulla Siria

C’era un presidente democratico alla Casa Bianca quando, nel settembre del 2013, per un supposto uso di armi chimiche da parte di Assad si rischiò un intervento Usa, e conseguentemente Nato, in Siria. Sappiamo come andò a finire: giornata di preghiera e di digiuno dichiarata da papa Francesco e schieramento di navi della flotta russa del Mar Nero davanti alle coste siriane. La minaccia cadde. Non finì lì, comunque, e la strana coincidenza della recrudescenza dei disordini in Ucraina spinse Putin un paio di mesi dopo a riprendersi la Crimea, base della flotta colpevole, col papa, di avere fermato la guerra.

Oggi c’è invece un presidente repubblicano a Capitol Hill ad agitare lo stesso supposto e incredibilmente stupido uso di armi chimiche da parte siriana quale casus belli per sganciare un po’ di “bellissimi, nuovissimi e intelligentissimi missili”, per usare una sua espressione, sulle unità di Assad. Insomma, la politica estera dell’instancabile e insindacabile poliziotto globale statunitense non cambia, a prescindere da chi ne regge le sorti.

E non cambia neppure l’approccio di altri protagonisti di questa chiamata alle armi contro il “dittatoraccio cattivaccio” (ma a quanto pare amato da larga parte della sua popolazione, con particolare riferimento alla cospicua minoranza cristiana locale che si sente da lui difesa dalla minaccia dell’integralismo islamico rampante). Il riferimento è alla Gran Bretagna, legata agli Usa dal patto della “five eyes community” (Usa, Uk, Canada, Australia e Nuova Zelanda) e forse non a caso protagonista da qualche settimana del controverso caso Skripal, ex spia russa asseritamente attaccata con aggressivi chimici russi – ma prodotti anche in occidente – che ha costretto tutta l’Europa a un inasprimento improvviso dei rapporti con Mosca. E il riferimento è anche alla Francia, che non dimentica il suo ruolo di ex potenza coloniale anche in Medio Oriente e che, dopo i mal di pancia per un nostro supposto “allargamento” nel suo orticello di casa subsahariano, non nasconde ambizioni di tornare a contare anche in quell’area. Anche in Uk e Francia, infatti, sono cambiati i reggitori delle sorti nazionali, ma la musica non cambia. In Uk c’è ora l’euroscettica Teresa May che annuncia di voler chiedere al Parlamento il permesso di bombardare Damasco già da stanotte, mentre in Francia l’euroentusiasta Macron, subentrato a Hollande e a Sarkozy, si dimostra come loro tutt’altro che restio a usare lo strumento militare per i propri esclusivi interessi nazionali. Con buona pace dell’Europa.

E l’Italia? L’Italia, come al solito, non potrà che accodarsi, pagando le conseguenze dell’ovvio radicalizzarsi dei rapporti con quello che è tornato ad essere un importante partner commerciale, l’Iran, ma anche per la definitiva caduta di ogni speranza di ammorbidire le sanzioni alla Russia, che certamente bene non fanno alla nostra economia. Ma è soprattutto sotto il profilo della sicurezza che il nostro Paese si troverà coinvolto nel gioco che altri stanno impostando. Siamo, infatti, al centro del Mediterraneo, e tale posizione continuerà a riservarci solo svantaggi, paradossalmente, a causa dell’assenza di una precisa politica estera nazionale che ci consenta di mettere a frutto la nostra centralità nel bacino. Non ci aiuta, a questo proposito, l’attuale congiuntura politica che ci vede con un governo in carica a trazione ridotta e con gli aspiranti nuovi reggitori dei nostri destini apparentemente concentrati più sulle alleanze da ottenere, sui vitalizi da tagliare e sulle linee del filobus da utilizzare per recarsi in Parlamento che sul vulcano che potrebbe esploderci sotto i piedi. Sarà quindi utopistico sperare in riduzioni di flussi migratori che al contrario potrebbero aumentare, anche dalla Siria, e c’è da aspettarsi un complessivo peggioramento nell’area mediorientale, con situazioni sempre più critiche in Libano dove operano 1.100 nostri soldati nell’ambito di Unifil. Ma anche sul nostro stesso territorio nazionale non sono da escludersi aumenti di tensione, visto che rappresentiamo il centro dell’area euromediterranea prima, molto prima, che il periferico limes meridionale di quella europea, e siamo il punto obbligato di passaggio, come minimo, per chiunque voglia nel nostro mare avere voce in capitolo.

Siamo, proprio per questo, un’importante retrovia operativa e logistica statunitense con basi importanti come quelle di Aviano e Sigonella che certamente saranno chiamate a svolgere un ruolo non indifferente nella probabile offensiva Usa.

Così, mentre l’affare si complica, anche con il probabile avvicinarsi di una formazione navale cinese per ora in transito nel Canale di Suez, seguiamo con pazienza e rassegnazione il rito delle consultazioni per la formazione di un prossimo governo del quale ancora non si vede l’ombra. Comunque sia, non ci resta che sperare che chi siederà a Palazzo Chigi si ponga, contemporaneamente al problema delle buche nelle strade della Capitale, l’obiettivo di definire per il nostro Paese un ruolo che non lo renda mai più succube delle iniziative altrui, soprattutto con riferimento a quelle, come la guerra in Libia e l’attuale crisi in Siria, alle quali siamo più esposti. E se per fare questo dovremo rinegoziare qualche aspetto delle alleanze di cui facciamo parte, varrà la pena di farci un pensierino.


×

Iscriviti alla newsletter