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George Weah, il presidente della Liberia va nel pallone. La speranza tradita

Nella piccola nazione degli schiavi affrancati dagli americani a inizio ottocento e tornati a casa (storia unica e romanzesca quella del primo Stato indipendente dell’ Africa coloniale, era il 1847), la delusione è subentrata quasi all’improvviso. Inattesa, perciò più cocente.

I liberiani (che lo avevano votato massicciamente) non credevano che il presidente-centravanti potesse tradire le loro speranze di giustizia e riscatto sociale, da lui per primo alimentate con coerente tenacia. E invece, a nemmeno quattro mesi dalla plebiscitaria elezione (61% dei consensi al ballottaggio), il 51enne George Weah, il più famoso dei calciatori del “continente nero”, “pallone d’ oro” e – insieme – strenuo difensore dei diritti civili fin dai tempi gloriosi del Milan di Berlusconi e poi del Paris St. Germain, è già tacciato di “svolta autoritaria”. Accuse mosse con rammarico e rabbia. E una punta di stupore. Comincia ad andare in onda il pentimento di un popolo.

“Amandla!”, invocava il candidato ammaliatore all’inizio e alla fine dei suoi comizi. Ovvero “Che la forza sia con voi!”, urlo di potente auto-incoraggiamento degli ex-sfortunati in catene che erano stati liberati. E, come un mantra, scandiva il suo slogan: “Una gente, una nazione, un destino!”. Reiterando impegni e promesse solenni, indifferibili: sviluppo della democrazia, redenzione dalla miseria e dall’eredità di due sanguinose guerre civili (250 mila morti), lotta alla corruzione che permea – come in tante altri nazioni africane – l’apparato statale di Monrovia, capitale da oltre un milione di abitanti in uno Stato che ne conta appena quattro.

Ma il prode George che faceva vibrare gli stadi, sempre corretto e sportivo, sembra marciare in una direzione molto diversa da quella tanto strombazzata, una strada addirittura opposta. Bavaglio alla stampa, boicottaggio e minacce: questo il fosco quadro disegnato da un recentissimo rapporto dell’Onu. Uno, in particolare, degli episodi denunciati è clamoroso. Il presidente-calciatore ha denunciato per diffamazione un quotidiano che non gli ha perdonato la sorprendente involuzione (il “Front Page Africa“), reclamando un indennizzo-record di quasi due milioni di dollari, cifra vertiginosa in una terra in cui il reddito medio mensile ammonta a non più di 45-50 dollari, che è 177esima (su 184 paesi) nella classifica mondiale dello sviluppo, dove l’85 per cento della popolazione arranca mestamente sotto la soglia minima di povertà. Un’esosa intimazione che, evidentemente, vuole arrivare a costringere il giornale scomodo a chiudere i battenti.

Un’altra vicenda inquietante ha colpito il corrispondente della Bbc da Monrovia, reo di aver rinfacciato a più riprese al presidente la mancata istituzione del Tribunale speciale per i crimini di guerra, strumento che facesse una buona volta chiarezza sulle responsabilità dei due conflitti civili che hanno sconvolto la Liberia: un altro dei dichiarati punti forti della sua campagna elettorale regolarmente disatteso. Il giornalista, che sarebbe stato sottoposto a pesanti intimidazioni, ha dovuto lasciare in fretta la Liberia e la polemica con l’emittente statale britannica continua a distanza.

Non solo Weah continua a tergiversare sullo scottante argomento. Per completare l’opera, non ha trovato di meglio che scegliersi come vice l’ex-consorte dell’odiato dittatore Charles Taylor, condannato da una Corte internazionale a cinquant’anni di reclusione per i crimini commessi nell’invasione della Sierra Leone a cavallo tra la fine degli novanta e i primi del duemila. Ci si domanda quali prezzi abbia dovuto pagare l’ex-campione in cambio del sostegno al suo cimento elettorale. Non si spiega altrimenti la sua improvvisa – e sconcertante – conversione al “tanto peggio, tanto meglio”.

Sotto, probabilmente, c’è un brutto intrigo. Con gli ambienti di sempre impegnati a riscuotere il loro credito. Coprire gli “annui bui”. Che hanno segnato indelebilmente il paese.


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