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Giornalisti che cadono dal quinto piano. In Russia

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Il giornalista investigativo russo Maksim Borodin è morto: il 12 aprile era caduto dalla finestra del quinto piano dell’appartamento dove viveva ed era stato ricoverato in condizioni gravissime (non s’è mai risvegliato dal coma). Polina Rumyantseva, direttrice di Novy Den (dove Borodin lavorava) ha respinto la ricostruzione immediatamente avanzata dal portavoce della polizia dello Sverdlovsk Oblast, la regione di Ekaterinburg (cittadina degli Urali dove viveva), secondo cui si è trattato di un suicidio. Poi Rumyantseva è tornata indietro: “Potrebbe essersi sporto troppo mentre fumava”.

La porta della casa di Borodin era chiusa dall’interno, non c’erano segni di effrazione, ma nemmeno una lettera in cui avrebbe potuto spiegare le ragioni del gesto. Aveva 32 anni, ed era noto per essere un reporter che ha condotto diverse indagini giornalistiche sulle attività clandestine di unità militari regolari e contractor russi in Siria, Ucraina e Cecenia.

Il tweet feed di Reporters Sans Frontieres chiede un’indagine esterna per avere chiarezza, perché la caduta sarebbe avvenuta “in circostanze sospette”.

Tra gli aspetti “sospetti”: un amico di Borodin, Vyacheslav Bashkov, ha scritto su Facebook che il giornalista lo contattò alle cinque di mattina dell’11 aprile, il giorno prima della morte, dicendo che si sentiva spiato e aveva visto persone a volto coperto circondare il suo palazzo; “Forze di sicurezza” le aveva chiamate. Secondo l’amico Borodin era preoccupato – ma in condizioni non alterate (non “isterico o ubriaco”) – perché credeva che da lì a breve quelle forze di sicurezza sarebbero entrate nel suo appartamento per perquisirlo. Stavano aspettando soltanto l’ok di un giudice, diceva il giornalista, per questo chiese a Bashkov di trovargli un avvocato.

Un’ora dopo, tuttavia, Borodin lo richiamò e disse che si era sbagliato e che gli agenti di sicurezza stavano conducendo una sorta di esercitazione. “Non l’ho più chiamato dopo”, ha scritto Bashkov, “anche se stavo aspettando che scrivesse qualcosa su Facebook, ma non ha scritto nulla e il 13 i media hanno riferito che Maksim era stato trovato sotto il suo balcone ed era al pronto soccorso”.

Borodin, che ha pubblicato diversi reportage anche sul crimine e la corruzione governativa russa, ultimamente si era occupato di una questione piuttosto scottante: i mercenari russi in Siria. È noto, anche grazie a inchieste come quelle del giornalista trovato morto questi giorni, che Mosca stia usando gruppi di mercenari per sostenere boots on the ground il proprio impegno al fianco del dittatore siriano Bashar el Assad.

Dal settembre 2015 la Russia è ufficialmente coinvolta nel conflitto siriano, con un obiettivo ambiguo: ufficialmente sostiene di essere impegnata in un’operazione anti-terrorismo internazionale, ma di fatto persegue interessi diretti. Di due tipi: primo, dà sostegno al governo siriano, amico, alleato, utile per incunearsi ancora più in profondità nelle dinamiche mediorientali (sfruttando la piattaforma di lancio geopolitico siriana); secondo, anticipa le mosse di eventuali jihadisti di ritorno, visto che sono molti i combattenti che hanno lasciato le regioni sud-orientali russe per unirsi al grande jihad califfale (un’attività che conducono altre unità speciali dell’intelligence di diversi altri paesi).

L’uso dei contractors serve a tenere al minimo il coinvolgimento. Quando muoiono i mercenari i governi possono evitare di ammettere le perdite, perché non sono soldati regolari. E questo, nel caso del coinvolgimento russo nel conflitto siriano è fondamentale: i russi soffrono una crisi economica piuttosto percepita, l’impegno militare è gravoso (e i cittadini preferirebbero che quei soldi venissero investiti a uso interno, non per la guerra), e dunque ammettere anche la morte di soldati russi sarebbe un problema pruriginoso per il Cremlino.

Borodin si è anche occupato di un episodio specifico che resta tra i passaggi interessanti della grande guerra civile globale siriana. Il 7 febbraio, un gruppo di governativi siriani formato da milizie sciite mosse dall’Iran, contractors russi e qualche unità regolare, ha cercato di attaccare una postazione dov’erano acquartierati i curdo-arabi che gli Stati Uniti hanno usato per liberare il territorio occupato dallo Stato islamico in Siria. Con loro, come sempre, c’erano anche dei reparti delle forze speciali americane.

Gli statunitensi si sono sentiti direttamente minacciati dalla superiorità di fuoco dei governativi, e hanno chiesto l’intervento aereo. I comandi hanno attivato il canale di comunicazione con i russi, questi però non hanno risposto e così gli ufficiali del Pentagono hanno direttamente ordinato un attacco aereo. Risultato: dozzine di quelle forze governative siriane sono rimaste uccise dal raid dei cacciabombardieri Raptor americani.

Mosca ammise perdite, sottolineando che però non erano soldati regolari, ma soltanto veterani pazzi a cui mancava la guerra, finiti a sfogarsi in Siria sfuggendo al controllo dei frontalieri russi. Alcuni giornalisti indagarono scoprendo che i morti tra i contractors russi erano piuttosto numerosi, e un mese fa anche il capo della Cia e segretario di Stato designato, Mike Pompeo, ha detto che i morti russi erano stati “a couple hundread” (un paio di centinaia).

Tra le inchieste, quelle di Borodin, che scoprì come alcuni contractor a febbraio erano tornati a casa dentro a bare discrete, nella città di origine di Asbet, dopo essere stati ingaggiati in via non ufficiale dal governo per la campagna siriana da una società di nome Wagner – riconducibile a Yevgeny Prigozhin (intimo del presidente Vladimir Putin) e guidata da Dmtry Utikin, ex comandante degli Spetznaz ora passato all’attività paramilitare privata.

(Foto: Facebook, Maksim Borodin)

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