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Per un governo del cambiamento (targato M5S) Di Maio ricorra alla pazienza

Se si riflette bene l’espressione “governo del cambiamento” che i 5 stelle continuano ad evocare è, soprattutto, inquietante. Che cosa significa infatti una simile espressione se non qualificata da un punto di vista programmatico? Si può infatti cambiare in meglio: cosa auspicabile. Ma si può anche peggiorare. Il discrimine è evidente. Dipende dalla direzione che si vuole intraprendere a degli strumenti che si vogliono utilizzare per realizzare l’obiettivo.

Purtroppo le specifiche finora fornite non aiutano a comprendere a quale tipo di società il Movimento intende riferirsi. Sul piano dell’elaborazione culturale, le indicazioni sono fumose. Con Domenico De Masi parlano di futuro, del “regno della libertà”, quando la tecnologia avrà liberato ciascuno dall’onere del lavoro. Vecchie teorie, per la verità, rivisitate con una patina di presunta modernità.

Già Keynes aveva indicato questo possibile traguardo, senza enfasi millenaristica. Il suo ottimismo verso il futuro derivava dal semplice confronto tra quanto l’uomo aveva realizzato nei 4 mila anni di storia precedenti ed i progressi conseguiti già un secolo fa. L’epoca in cui il grande economista era vissuto. Questo confronto lo portava a dire che, nello spazio di qualche generazione, il problema della fame nel mondo sarebbe stato risolto. Previsione in parte fondata. Dagli anni ‘30 la superficie di quello che una volta era qualificato come “Terzo mondo” si è enormemente ridotta. Come mostrano i dati forniti dall’Onu. Zone di sofferenza, anche estese, rimangono. Ma i progressi realizzati, anche grazie all’aborrita globalizzazione, sono stati rilevanti.

Carlo Marx non era stato da meno. Suo era stato il termine: “regno della libertà”. Da contrapporre allo stato di necessità: segnato dalla fatica umana, dovuta al basso tasso di sviluppo tecnologico. Nessuna traiettoria lineare, tuttavia. Il carattere contraddittorio dello sviluppo capitalistico recava in sé i germi delle possibili crisi e devianze. Per contrastare i quali era necessario quella rivoluzione che, secondo i postulati dei comunisti della Terza Internazionale, avrebbero accelerato il cammino della storia.

Questo era quindi il retroterra culturale che ispirava la retorica del cambiamento. Con tutte le sue contraddizioni, poi sfociate nell’eterogenesi dei fini. Vale a dire nel totale rovesciamento dei desideri originari. Ma nei 5 stelle non c’è nemmeno questo. Solo un’esortazione generica che si accompagna alla negazione della democrazia parlamentare. China pericolosa dov’è fa capolino il volto di Putin o di Erdoğan. Ma che cos’è questa democrazia diretta? In quale Paese è stata sperimentata? Quali sono i suoi strumenti attuativi e quali le garanzie di libertà? Senza ulteriori specificazione somiglia troppo alle allucinazioni di Orwell. Sia che si tratti del “grande fratello” o della “fattoria degli animali”. Ma forse, più modestamente, è solo un grande randello da usare contro le altrui responsabilità.

Ma le vecchie classi dirigenti non hanno fallito per il loro opportunismo. Che indubbiamente c’è stato. Hanno fallito per la loro inadeguatezza. Per l’incapacità dimostrata nel prendere il toro per le corna e assicurare all’Italia non il paradiso, ma almeno una vita simile a quella di tutti gli altri Paesi europei. Se oggi siamo più vicini alla Grecia che non alla Germania, qualche ragione ci deve pur essere stata. I 5 stelle sono in grado di superare questo gap? Di garantire una governabilità maggiore, venendo incontro all’interesse di milioni di cittadini?

Queste virtù vanno dimostrate, e non solo declamate per evitare che si ripetano gli errori di Roma e di Torino. Se Luigi Di Maio avesse l’umiltà, che nasce dalla consapevolezza della propria condizione, non avrebbe dubbi. Invece di ripetere “après moi le déluge”, presidenza o morte, capirebbe che la strada di un governo effettivo del Paese, specie se si vuole innovare, è lunga e perigliosa. Richiede capacità di ascolto, competenze maturate nel difficile esercizio dell’arte della governance, conoscenza dei meccanismi istituzionali nei meandri di uno Stato tutt’altro che amichevole. Tutte cose che stridono con la sua giovane età e la mancanza di esperienze pregresse.

Dovrebbe, in definitiva, ricordarsi che la pazienza è la virtù dei forti. E che essa non può che portare alle necessarie intese. Requisito indispensabile per non cadere nella stessa trappola che ha segnato l’esperienza di Virginia Raggi. Costretta a mettersi nelle mani del Rasputin di turno. Al secolo quel Marra, poi finito nelle patrie galere.


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