Basta scorrere i tweet o i post su facebook, o parlare con alcuni elettori del Partito Democratico o del Movimento Cinque Stelle, per avere un’idea ben precisa di quanto le basi dei due partiti siano ostinatamente contrarie all’ipotesi di un esecutivo che li veda insieme a governare il Paese. E non c’è da stupirsene.
Infatti, nel corso dell’ultima legislatura, i due schieramenti si sono fronteggiati con tale veemenza che gli attuali sentimenti dei rispettivi attivisti altro non sono che la logica conseguenza di un confronto tanto violento.
A contribuire a questo stato di cose ha senza aiutato il retaggio del bipolarismo muscolare che, nonostante una legge elettorale in gran parte proporzionale, ci portiamo appresso da venti anni. I toni dei leader durante la campagna elettorale, dopo venti anni di bipolarismo muscolare, non hanno in alcun modo tenuto conto del cambio di prospettiva che il Rosatellum portava con sé. A fronte di una legge elettorale che avrebbe comunque imposto delle alleanze tra gli schieramenti che si erano presentati alle urne, sia gli esponenti politici sia i media hanno continuato a rappresentare uno scontro quasi antropologico più che politico tra i vari partiti.
Diventa quindi molto difficile che gli elettori di Pd e M5S, dopo essersi scambiati qualsiasi tipo d’accusa, sulla scia di quanto fatto dai propri leader di riferimento, possano accogliere con il sorriso sulle labbra l’ipotesi di ritrovarsi insieme in un governo. Facendo un parallelo calcistico è come se si proponesse a Roma e Lazio di fondersi in un unico club dopo anni e anni di rivalità.
Uno degli elementi che gioca a sfavore di un ipotetico governo tra grillini e democratici è quello del tempo: è difficilissimo riuscire a far accettare questo accordo ai rispettivi simpatizzanti nel poco tempo che è a disposizione dei due partiti; sostanzialmente – a quasi due mesi dal 4 marzo – Pd e M5S sembrano avere poco più di una settimana per portare avanti una trattativa tanto complicata.
L’ipotesi di accordo, inoltre, appare problematico soprattutto per il Partito Democratico che, oltre a dover fronteggiare l’ostilità dei suoi militanti, si trova davanti ad una spaccatura evidente dei gruppi dirigenti. La divisione tra i “dialoganti” e coloro che non vogliono nemmeno iniziare a trattare con il M5S è sotto gli occhi di tutti. Questi ultimi – grosso modo – coincidono con l’area che fa riferimento all’ex segretario Matteo Renzi, che, sia tramite la direzione sia tramite i gruppi parlamentari, controlla il partito. Paradossalmente, come fatto notare tra gli altri da Pier Ferdinando Casini, è proprio Matteo Renzi, ovvero l’oppositore numero uno ad un accordo tra M5S e Pd, l’unico che possa guidare il Pd in questo percorso; l’unico leader che possa in qualche modo guidare la base in un lungo percorso tutto in salita. Solo i leader, infatti, in politica possono guidare processi tanto complessi, soprattutto se nascono in contrapposizione con il sentimento prevalente dei militanti.
In realtà Matteo Renzi, invece, sembra più orientato ad un altro tipo d’intervento. Renzi, che da quando è arrivato sulla scena politica nazionale ha sempre avuto bisogno, da un punto di vista della comunicazione, di un “nemico” interno contro cui contrapporsi, ora potrebbe facilmente interpretare il ruolo del “salvatore”, tornando in campo, magari senza tornare a occupare il ruolo di segretario, per chiudere ogni spiraglio ad una trattativa con il M5S, nel tripudio del popolo democratico. Non a caso, da pochi giorni, su twitter è nato un hashtag – #RenziTorna – che è una richiesta esplicita al leader di Rignano di riprendere le redini del partito. Per usare il gergo del mondo del poker, è come se Renzi fosse tentato dall’ennesimo all-in, questa volta per sbaragliare definitivamente gli avversari interni, e per sopire ogni ipotesi di dialogo dell’ala governista del Pd.
È chiaro che una mossa del genere ridurrebbe drasticamente la possibilità di dare un governo al Paese, anche perché, almeno a parole, sia Lega sia M5S si dicono contrari ad un governo del Presidente. L’Italia, quindi, rischierebbe seriamente di tornare velocemente alle urne, sancendo l’irresponsabilità dei partiti, e, probabilmente, la fine di ogni sogno di gloria per Luigi Di Maio che, chiudendo ad ogni ipotesi di dialogo con Silvio Berlusconi, ha praticamente azzerato ogni possibilità di andare a Palazzo Chigi.