In attesa della direzione del Partito democratico, prevista per il prossimo 3 maggio, che dovrebbe sciogliere i primi nodi riguardo una possibile alleanza tra il Movimento 5 Stelle e i democratici, la politica e gli addetti ai lavori, viste le difficoltà di un’intesa, già si interrogano su quello che potrebbe accadere una volta che anche questo tentativo di dare un governo al Paese dovesse tramontare. Per questo motivo, per verificare i possibili sentieri che il Presidente Mattarella potrebbe percorrere per spingere le forze politiche a creare un esecutivo di cui il Paese ha bisogno, abbiamo interpellato il professore Francesco Clementi, docente di diritto costituzionale comparato all’Università di Perugia.
Professor Francesco Clementi, in molti osservatori ha destato un po’ di perplessità l’espressione usata da Roberto Fico al termine dell’incontro con il Presidente Mattarella. Il presidente della camera ha parlato di “esito positivo” in merito al proprio mandato. Qualcuno ha fatto notare che per ora si è solo davanti ad possibile inizio di dialogo.
Quando il Presidente Fico ha usato questa espressione, immagino abbia inteso voler dire, semplicemente, che è stata verificata una possibilità di dialogo tra il Movimento Cinque Stelle e il Partito democratico. D’altronde, il Capo dello Stato aveva circoscritto con precisione – e a mio avviso in maniera molto corretta, innanzitutto per rispettare il voto espresso dagli italiani – i due mandati esplorativi assegnati prima alla Presidente Casellati e poi, appunto, al Presidente della Camera Fico. Entrambi i mandati avevano un perimetro ben preciso: ‘verificare l’esistenza di una maggioranza parlamentare’. Tuttavia, se quello dato alla Casellati era volto a verificare una possibile convergenza tra il centrodestra e il M5S, compresa ‘un’indicazione condivisa per il conferimento dell’incarico di Presidente del Consiglio per costituire il Governo’, al Presidente della Camera il Colle aveva principalmente ‘affidato il compito di verificare la possibilità di un’intesa di maggioranza parlamentare tra il Movimento Cinque Stelle ed il Partito democratico per costituire il Governo’. Per cui, rispetto al mandato ricevuto, la positività registrata l’ascriverei al fatto che il Presidente Fico ha verificato che non c’è una pregiudiziale che impedisca il confronto, al di là del suo esito finale ovviamente, tutto da verificare.
Se dovesse fallire anche questo tentativo di dare un governo all’Italia che frecce avrebbe ancora a sua disposizione il presidente Mattarella per dar vita ad un esecutivo?
Prassi alla mano, il Capo dello Stato può utilizzare tutta l’esperienza repubblicana, oltre che la sua saggezza politica, per invitare le forze politiche ad arrivare ad una soluzione. Di certo, già da ora si può registrare che la strada seguita da Presidente è di una linearità rigorosa, molto rispettosa delle prassi repubblicane e delle indicazioni degli elettori con il loro voto. Infatti, dapprima il percorso ha visto, all’esito del voto, le consultazioni del 12 e 13 aprile operate dallo stesso Presidente Mattarella con le Rappresentanze Parlamentari e le Alte Personalità; poi la fase dei mandati esplorativi alla seconda e alla terza carica dello Stato con l’affidamento a loro del compito di verificare, in modo diverso ma simmetrico, l’esistenza di una maggioranza parlamentare; ora, io credo, seguendo la prassi repubblicana, il Presidente potrebbe aprire la fase dei pre-incarichi, iniziando da chi ha avuto maggior consenso elettorale, quindi o partendo dalla coalizione di centrodestra o dal Movimento Cinque Stelle, affidando ai rispettivi leader un pre-incarico per trovare una maggioranza parlamentare a sostegno di un governo di coalizione, innanzitutto a loro trazione. Laddove fallisse il primo pre-incaricato, toccherebbe al secondo provare a trovare una soluzione.
Si profilano tempi ancora molto lunghi quindi...
Certamente non mi pare possa dirsi che vi sarà a breve una soluzione: ci vorrà ragionevolmente ancora del tempo, come è avvenuto in Germania o in Spagna, prima di addivenire ad una soluzione condivisa tra le forze politiche. D’altronde, come noto, l’uso del tempo, anche di molto tempo, è una delle caratteristiche principali delle democrazie che gli studiosi, non a caso, chiamano consociative, proprio perché la formazione della maggioranza parlamentare non è normalmente la risultante dell’esito del voto ma è figlia di accordi, che non sono mai brevi né semplici, da realizzare tra le forze politiche in Parlamento.
Quindi, il Presidente potrebbe tornare a far esplorare un’ipotesi di maggioranza di governo che sembrava ormai archiviata come quella tra centrodestra e M5S?
Sì, anche se non farei confusione con il mandato esplorativo svolto dalla Presidente Casellati. Infatti, nel momento in cui viene affidato un pre-incarico, lo si affida per provare a realizzare una maggioranza parlamentare – i cui confini al momento non possono essere così definiti – sebbene, da quanto sembra emergere dal confronto pubblico, immaginerei che non si possa escludere a priori che si rimanga in quell’alveo, con la possibilità di un governo Centrodestra-M5S, anche se non poche difficoltà mi parrebbero emergere, almeno a stare alle recenti dichiarazioni dei leaders. Nulla esclude, naturalmente, che si possano modificare le alleanze pre-elettorali, così come ricercare, in un campo diverso, anche più largo rispetto a quello già esplorato, la disponibilità di altre forze politiche. Certo si è che ogni scelta, a maggior ragione in vista delle prossime elezioni amministrative di giugno e, tra un anno, delle elezioni europee che – non lo dimentichi – sono con un sistema proporzionale su una scala dimensionale non indifferente, ha un prezzo politico in termini di consenso, che deve essere valutato con molta attenzione.
Il Presidente potrebbe invece provare a giocare la carta di un governo istituzionale, il “governo del Presidente” di cui in molti parlano in questi giorni?
Quando si parla di consultazioni, come detto, non siamo davanti ad un vincolo costituzionale, ma ci muoviamo nell’ambito della prassi. Di certo, laddove la sfida di costruire una maggioranza di tipo politico-parlamentare fallisse, la strada sarebbe molto più stretta: o un governo istituzionale, dell’emergenza, come è stata già prospettata da alcuni costituzionalisti, a lei allora da Vincenzo Lippolis, e più di recente da Michele Ainis su Repubblica, oppure un voto anticipato.
Entrambe le opzioni prevedono serie valutazioni: il governo dell’emergenza istituzionale prevede un sostegno, istituzionale appunto, di pressoché tutte le forze politiche, fatto tutto da verificare; tornare al voto anticipato, a ridosso della sessione di bilancio (che comincia a metà ottobre) vuol dire da un lato aprire un tempo di fibrillazione politica assai peculiare nel Paese, basti pensare che le liste elettorali le dovrebbe chiudere a luglio, facendo la campagna elettorale ad agosto quando il Paese è in ferie. E di certo non è un buon modo per favorire la piena consapevolezza tra gli italiani di un voto tanto grave ed importante per il Paese. Dall’altro, votare a settembre favorirebbe – e non poco – serie fibrillazioni economiche intorno all’affidabilità e alla stabilità del nostro Paese, non da ultimo rispetto alle scelte importanti da compiere, anche per far fronte ad impegni già presi nonché per evitare l’aumento automatico dell’Iva. Insomma, mi faccia dire: non soltanto vi sarebbe il rischio di un forte aumento dell’astensione elettorale, già molto alta nella tornata di marzo scorso, ma anche un forte rischio per la tenuta economica del Paese. A chi gioverebbe, allora, tornare al voto così anticipatamente? Di certo, io credo, non agli italiani. Che, appunto, non si farebbero sfuggire l’occasione per punire nell’urna le forze meno responsabili, cioè quelle più interessate a se stesse, prima che al destino del Paese e al costo che famiglie ed imprese pagherebbero di fronte ad una potenziale, ma reale, instabilità economica.
Per cui, insomma, Professore, di fronte ad un dilemma del genere, riterrebbe più opportuno per il Paese un governo “di decantazione politica”, di emergenza istituzionale?
In qualche modo, considerato il tempo di oggi e le interrelazioni che il potere e l’economia oggi globalmente racchiudono, un Paese come il nostro va messo, innanzitutto, a riparo dal rischio di votare nuovamente entro l’anno con la medesima legge elettorale di marzo. Un rischio vero, anche se oggi, capisco, con l’estate che avanza, non viene istintivo ragionare sull’inverno e sul carico di provviste da mettere in cascina per quando il tempo sarà duro e rigido, e si sarà più esposti alle avversità e al rischio, appunto, di rimanerne senza.
Per cui, sì, nel dilemma, credo che un governo di emergenza istituzionale, di decantazione politica, sia una soluzione preferibile al voto anticipato in autunno. Di certo, oggettivamente, sarebbe un governo che, nascendo per dare stabilità al Paese, dovrebbe consentire, innanzitutto, che si risolva, una grande questione tra le forze politiche, prodromica ad ogni prossima elezione: ossia il mutamento di questa legge elettorale, da tutti, alla prova dei fatti, ritenuta poco adeguata. Nonché, mi permetta, anche alcune chirurgiche e crescentemente condivise riforme della sola Seconda Parte della Costituzione, oggi sempre più strategiche, tanto legate alla “partita” della legge elettorale e della forma di governo, come la parificazione degli elettorati tra Camera e Senato, quanto legate alle dinamiche della forma dello Stato, come quella relativa alla tutela della salute nel riparto di competenze del Titolo V sulla quale, ad esempio, molte associazioni di settore e non solo, guidate da Cittadinanzattiva e dalla loro campagna “diffondilasalute”, si stanno impegnando, riscontrando un favore già da ora di più di una forza politica.
Ma, mi scusi, di fronte ai rischi dell’inverno, allora, non sarebbe ancora possibile votare prima dell’estate?
No, poiché, per una questione di tempi, la “finestra” estiva è sostanzialmente già chiusa, posto che non vi sarebbe più il tempo per utilizzare con ordine quei sostanziali sessanta giorni, al posto dei soli quarantacinque che la legge prevede come minimo, che servono per far votare anche gli italiani all’estero. Peraltro, anche laddove per ipotesi fosse ancora possibile, se la legge elettorale rimanesse la stessa di marzo, il risultato sarebbe pressoché invariato, come molti istituti di ricerca hanno già mostrato. Insomma, uno stallo garantito. Insomma, non butterei alle ortiche la possibilità di procedere verso un governo di decantazione, di tregua politica, per rimettere almeno “un po’ in ordine il sistema”, permettendo al Parlamento di risolvere urgenze semplici e condivise, in vista di un nuovo voto nel giro di poco tempo. E vedere così il prossimo risultato delle elezioni veramente risolutivo, proprio perché si sono allineati, ad esempio, i pianeti degli elettorati rispetto ad un bicameralismo.
Si potrebbe, tuttavia, andare avanti con il Governo Gentiloni fino al voto, evitando un “governo del Presidente”?
Non ci sono vincoli che impediscano all’attuale formato del governo Gentiloni – che è già un governo dimissionario – di andare ancora avanti per l’ordinaria amministrazione, soprattutto di fronte ad un Parlamento che non ha visto ancora la formazione delle commissioni parlamentari. Si andrebbe avanti con l’attuale esecutivo fino a che non subentrasse un nuovo governo. Tuttavia, le forze politiche dovrebbero tutte concordare nel sostenere questo processo, soprattutto nel momento in cui quel governo, che sempre più perderebbe le caratteristiche di politicità, dovrebbe, al contrario, fare scelte molto politiche, a partire dalle risposte che, in termini reciproci, si aspettano i nostri partners e la stessa Unione europea. Insomma, non è semplice. E di certo, laddove nascesse un governo di decantazione, di tipo istituzionale, considerate le sfide europee, di politica internazionale e di politica economica che il Paese ha di fronte, non potrebbe non essere, almeno sulle linee strategiche, in continuità con l’ultima fase, quella più istituzionale, del governo Gentiloni.