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Il mondo investe in infrastrutture. E l’Italia? Ecco come rispondere

Infrastrutture Investire

“Entro il 2030 bisognerà investire 50mila miliardi di dollari, pari a circa il 2,5% del Pil mondiale, in infrastrutture intercontinentali”. Queste le cifre dell’Ocse e le parole riportate da Gianni Letta in apertura della presentazione del volume Cooperazione pubblico-privato e infrastrutture, edito da Wolters Kluwer e Cedam, presso la sede dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana, ospitati dal padrone di casa Franco Gallo, fra gli autori del volume.

Il testo, che raccoglie gli atti di alcuni preziosi incontri fra giuristi, amministratori pubblici e imprenditori privati fornisce una serie di riflessioni sui limiti – e sulle possibili soluzioni per superarli – delle partnership pubblico-private nel settore delle infrastrutture, con particolare riferimento agli investimenti stranieri. Ma l’obiettivo degli autori, come ha spiegato Cesare Mirabelli, curatore del volume e già presidente della Corte Costituzionale, è quello di rivolgersi non solo agli addetti ai lavori, ma anche alle istituzioni, pedina fondamentale per il rilancio degli investimenti nelle infrastrutture.

“Il problema dell’Italia – ha spiegato infatti Gaetano Vecchio, presidente del Gruppo Pmi internazionale presso l’Associazione nazionale costruttori edili – è il suo sistema fortemente deficitario. Servono certezza del diritto e un diritto dei Paesi omogeneizzato al diritto dell’economia, che è necessariamente transnazionale. Ci sono alcune esigenze fondamentali – ha proseguito – e la prima è la certezza del diritto e delle decisioni. Non è possibile che un governo decida di costruire un’opera e quello successivo la cancelli. Servono investimenti a lunghissimo raggio che non siano dipendenti dalle posizioni dei governi. Agli investimenti serve stabilità”. “Solo se ciò si realizza – ha concluso Vecchio – le partnership pubbico-private del settore sono una grande potenzialità”.

Della stessa opinione Gianni Letta, secondo cui “gli investimenti per le grandi infrastrutture richiedono l’affidabilità e la certezza dei rapporti, regole chiare, stabili e ispirate a princìpi comunemente condivisi”. “Ogni ordinamento – ha spiegato ispirandosi a quanto letto sul volume – dovrebbe trovare la forza di estrarre dal proprio patrimonio di regole quelle regole da mettere a fattor comune per arrivare a un’armonizzazione delle stesse e dare un governo il più possibile uniforme e unitario a un fenomeno così universale come quello dell’economia delle infrastrutture”.

“Le regole del diritto devono essere necessariamente sopra la politica e ogni interpretazione delle stesse è un atto politico” ha confermato l’addetto ai lavori, giurista e professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata Eugenio Picozza.

“Ciò che a volte viene dimenticato è che economia e diritto non sono materie separate, ma pagine di un unico libro che se non lette insieme possono solo creare distruzione”. Questa la visione di Mario Ciaccia, politico e magistrato anch’egli curatore del volume. “I soggetti che investono devono poter contare sulla forza contrattuale delle clausole sottoscritte in presupposti giuridici e avere una progettazione forte, cosa che manca a tantissimi progetti in partnership pubblico-privata/e/o”. Serve poi, sempre secondo Ciaccia, “una bancabilità dell’operazione”. Gli investimenti devono piacere al mercato altrimenti, pur in un contesto di grande liquidità, vengono a mancare. Servono infine “la certezza della remunerazione, ma anche una capacità di adeguamento all’inflazione che corre nei singoli Paesi”.

In particolare, poi, l’America Latina, come hanno ricordato sia Riccardo Cardilli, curatore del libro e professore di Diritto romano presso Tor Vergata, che lo stesso Ciaccia, rappresenta un terreno fertile per una collaborazione economica con l’Italia, anche in vista di una cultura e una tradizione in qualche modo vicine. “Alcune zone hanno fame di infrastrutture – ha confermato Ciaccia – e l’America Latina è tra queste”. Il Sud America “ha un mercato di 500 milioni di persone – ha ricordato Letta – aperto alla collaborazione con l’Italia. Se ci fosse una politica più coordinata, le potenzialità che si intuiscono potrebbero realizzarsi non solo per decine o centinaia di imprese italiane, come accade oggi, ma per migliaia di esse”.


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