L’ideale di giustizia di Israele fu sempre considerato il fondamentale attributo di Jahveh. Come tale non conobbe, salvo un breve periodo di crisi, né incertezze né esitazioni. Ma proprio perché condizionato da questo presupposto religioso dovette evolversi, adattandosi alle particolari vicende politiche. Quando le cose andavano bene, il devoto Giudeo ringraziava il Signore. Quando andavano male, si domandava quali fossero le colpe da espiare. E poiché andarono di male in peggio, anche l’ideale di giustizia subì profonde trasformazioni.
Se il Dio di Mosé era essenzialmente un legislatore, il Dio dei profeti era soprattutto un giudice implacabile, ma nessuno mai dubitò della sua equità: Jahveh retribuiva i singoli, e l’intero popolo, secondo i meriti e le colpe. Quando arrivava una disgrazia, sotto forma di epidemia o disfatta militare, la risposta era facile: chi si comporta male davanti al Signore viene colpito dal suo braccio potente. Così, la stessa caduta di Gerusalemme fu interpretata come la manifestazione dell’irritazione divina alle scelleratezze degli ultimi sovrani. Quasi tutti gli ebrei furono deportati, ma nessuno dubitò della giustizia del Signore. Anzi. All’umiliazione e allo sconcerto dell’esilio, Israele reagì con la costante fedeltà al proprio credo e alla propria coscienza nazionale. Attese fiducioso la liberazione, e questa arrivò con la benevolenza di Ciro, il persiano conquistatore, che consentì il ritorno a Gerusalemme. Ma il rientro fu deludente: l’antica città non esisteva più, e attorno alle rovine del tempio si celebravano nuovi riti e si adoravano altri dei.
Fu allora, nel riedificare le strutture materiali e morali della Giudea, che Esdra, Neemia e l’intera classe sacerdotale si domandarono perché Jahveh avesse consentito una simile catastrofe politica e religiosa. Partendo sempre dal postulato che Dio è giusto, la risposta fu trovata – ancora una volta – nella disubbidienza del popolo, nella violazione del patto. Tuttavia, la disubbidienza presuppone una catalogo chiaro di norme da seguire, e queste in effetti mancavano. Così, i nuovi reggenti redassero in modo definitivo la precettistica del Levitico e del Deuteronomio. In tal modo il concetto di giustizia venne identificato con la scrupolosa ubbidienza alla normativa formale, alle pratiche liturgiche e alle minuziose ritualità. Ma nemmeno questo fu sufficiente. Le divisioni interne lacerarono il Paese, che ritornò presto sotto il dominio straniero, finché Pompeo, profanando il tempio così faticosamente ricostruito, sigillò con l’arroganza blasfema la sconfitta finale.
Fu in questi decenni che l’ideale di giustizia parve crollare. Nacquero così i due libri più belli e singolari dell’Antico testamento, che ancora oggi rappresentano le domande e le consolazioni della dolente umanità: Giobbe e l’Ecclesiaste. Ma a differenza di Voltaire, che consiglia di cultiver son jardin come una beneaugurante aspettativa, Cohelet oppone un carpe diem di sostanziale scetticismo, appena temperato dalla consapevolezza che se la vita è fonte di rare gioie, di abbondanti dolori e di un’inestinguibile noia, il nulla conclusivo concederà a tutti, buoni e cattivi, un generale riposo. La reazione di Israele a questo scacco devastante non fu particolarmente vigorosa, ma fu originale.
Cominciò a ripudiare il concetto di un’esistenza individuale limitata nello spazio e nel tempo e affidò i destini dei singoli mortali a una risurrezione riparatoria. Una simile visione era estranea a Mosé e ai profeti, come lo era ai miti caldei e alle altre religioni più antiche, che avevano concepito l’aldilà come un indifferenziato parcheggio di anime inconsistenti ed errabonde. Tuttavia, la traccia era ormai segnata, e fu presto battuta con fantasioso vigore dall’apocalittica di Daniele, di Enoch e di altri entusiastici visionari: la giustizia di Dio si affermerà nell’apoteosi degli ultimi giorni. Sarà Gesù, dopo le prime esitazioni, a proclamare con la propria funzione messianica, e il vicino avvento del regno di Dio, un giudizio finale fondato sull’etica dei due comandamenti del giudaismo rabbinico: l’amore di Dio e del prossimo. E sarà Paolo a completarne la portata, ammettendo in questo regale banchetto tutti i giusti della terra, circoncisi e gentili, se avranno creduto nella parola del Signore.