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Senza lavori pubblici l’economia non cresce. Il nodo del codice appalti

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Mentre i partiti provano, non senza fatica, a dare un governo all’Italia, c’è un settore economico – tradizionalmente tra i più trainanti dell’intero sistema produttivo del nostro Paese – che continua ad arrancare e a chiedere alla politica interventi realmente risolutivi dopo questi lunghissimi anni di crisi. Il comparto edile – in particolare, quello impegnato nel mercato degli appalti pubblici e delle opere pubbliche – ancora non è riuscito a voltare pagina e a tornare alla crescita, con conseguenze che si ripercuotono globalmente su tutta l’economia italiana. D’altronde – come ha evidenziato l’ultimo osservatorio dell’Ance sull’andamento del settore nel 2017 (simbolicamente titolato “Un anno di crescita andato in fumo”) – lo scorso anno gli investimenti in costruzioni e in lavori pubblici sono diminuiti ulteriormente: a tal proposito si calcola che dall’inizio della crisi l’Italia abbia accumulato un gap di investimenti in infrastrutture pari a 60 miliardi di euro. Eppure, negli ultimi anni, gli stanziamenti effettivi sarebbero anche aumentati ma questo sforzo economico – rilevano i costruttori – è stato completamente azzerato dall’inefficienza delle procedure di spesa della pubblica amministrazione. E anche dal nuovo codice degli appalti pubblici – quello varato nell’aprile del 2016 – che, stando alla versione ormai praticamente unanime degli imprenditori edili e degli esperti giuridici, ha finito con il rallentare, o impedire del tutto, l’uscita del settore dalla crisi economica.

UN PROBLEMA CHIAMATO CODICE

Le problematiche e le questioni sollevate in tal senso sono numerosissime – dalla disciplina di molti istituti alla scarsa chiarezza di larghe parti della normativa – ma uno, in particolare, è ben visibile pure a occhio nudo: i siderali ritardi nel varo della regole di attuazione, che hanno fatto del codice un ostacolo alla ripartenza del settore. Di casi se ne potrebbero citare diversi: per dare completa applicazione al codice del 2016 mancano ancora all’appello circa i due terzi dei provvedimenti attuativi previsti e di competenza di una pluralità di soggetti pubblici, in primis il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e l’Anac. Ad esempio è esemplificativa la vicenda del decreto di qualificazione delle stazioni appaltanti, che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello della nuova normativa: con il provvedimento le pubbliche amministrazioni in grado di bandire le gare d’appalto avrebbero dovuto essere ridotte nel numero e meglio professionalizzate, così da procedere in maniera più efficiente ed efficace. Peccato, però, che quel decreto non abbia ancora visto la luce nonostante fosse prescritto per la sua adozione il termine di 90 giorni dall’entrata in vigore del codice. Un’inerzia che ha causato a cascata altri ritardi e mandato inevitabilmente in tilt le stazioni appaltanti da un lato e le imprese dall’altro.

I FASCICOLI EUROPEI

Come se non bastasse, sulla normativa del 2016 si addensano anche numerosi dubbi di compatibilità con la disciplina comunitaria in attuazione della quale il codice stesso è stato adottato. Attualmente sono sette le questioni sulle quali la Corte di Giustizia europea ha acceso il suo faro in merito alla disciplina italiana degli appalti pubblici (qui una tabella riassuntiva). È il caso, ad esempio, del subappalto, a proposito del quale il codice ha previsto il limite del 30%. In sostanza – stabilisce la normativa italiana – il valore della prestazione data in subappalto non può superare il 30% dell’importo complessivo del contratto pubblico. Una misura però non in linea con le regole dettate dalle direttive europee in materia, come conferma questa lettera che ormai un anno anno fa venne inviata all’ambasciatore italiano presso l’Unione Europea Maurizio Massari da Lowri Evans, direttore generale della Commissione per il mercato, l’industria e l’impresa. Di quel documento – nel quale i meccanismi previsti dalle norme italiane erano definiti “molto preoccupanti” – il nostro Paese avrebbe potuto (e dovuto) tenere conto nel correttivo al codice varato nel maggio scorso. Ma così non è stato, con la conseguenza di esporre l’Italia al rischio di una procedura d’infrazione al riguardo.

CHE FARE?

Tante e tali problematiche da far alzare sempre più forte la voce di chi oggi chiede una decisa inversione di marcia a livello normativo. Sul banco degli imputati appunto il codice degli appalti, a proposito del quale le posizioni più diffuse sono tre, tutte accomunate da una fortissima critica: c’è chi ne chiede, infatti, una profonda riforma, chi pensa che debba essere sostituito con una nuova disciplina nuova di zecca e chi ritiene infine che debba essere abrogato per applicare direttamente le direttive europee in materia. Una questione di cui sarà chiamato a occuparsi con urgenza il governo che verrà (se verrà).

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