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Il sottosuolo della democrazia nell’era dei social media. Le parole di Lodici

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Social media e fake news, populismi e necessità di elaborare buone politiche di governo. Di questo ha parlato Claudio Lodici, professore di Comparative government alla Loyola University Chicago Rome Center, intervistato da Formiche.net a margine della due giorni “Biennial Colloquy on The State of Democracy: Democracy Under Attack”, ospitata dal Centro Studi Americani a Roma. “Con questa conferenza vorremmo offrire riflessioni a chi è attore politico per far capire che non bisogna scherzare con il fuoco e la democrazia, una volta perduta, ci vuole molto tempo per recuperarla”, ha affermato Lodici, esprimendo parte del motore e della spinta propulsiva che ha animato l’iniziativa.

Il ceo di Facebook Mark Zuckerberg ha parlato martedì davanti al Congresso americano, assumendosi la sua fetta di responsabilità sulla questione fake news, sull’uso improprio dei dati degli utenti da parte della società di data mining Cambridge Analytica e sulle interferenze degli hacker russi nelle elezioni del 2016. Cosa ne pensa?

Per la prima volta l’uomo che ha fondato il social media più potente, quello che ha dato il via a tutta un’industria, ha invocato lui stesso delle norme. Fino a questo momento avevo riscontrato una differenza profonda degli Stati Uniti con l’approccio di alcuni paesi europei, specificamente la Germania, che è stato il membro dell’Unione europea che ha inteso intervenire in maniera più decisa nel campo dei social networks e delle notizie false e che diffondono odio, con la considerazione di altri atti normativi, di leggi nel Bundestag. Rispetto a questo, infatti, l’atteggiamento degli Stati Uniti è stato tradizionalmente diverso. Il primo emendamento, la libertà d’espressione copre una quantità enorme di cose in America, persino il finanziamento delle campagne elettorali. Ieri Zuckerberg per la prima volta ha ammesso, anche se secondo me doveva farlo prima, le responsabilità della società. Ma bisogna anche dire che effettivamente non poteva fare altrimenti perché stiamo parlando di un’economia immateriale che ci metterebbe poco a implodere. Non dimentichiamo, infatti, che nei giorni successivi al caso Cambridge Analiytica, denunciato dal Guardian, Facebook aveva perso miliardi di dollari e quattro, cinque punti in borsa. Questo mi porta a pensare che sia stata proprio la necessità di mettere una toppa per cercare di uscirne bene ed evitare di perdere ancora più punti ed incorrere in un “melt down” della sua economia, a spingerlo davanti al Congresso.

Per restare in tema social media, in che modo secondo lei oggi il web sta incidendo nel modo di concepire la democrazia?

Premesso che io non sono un esperto di comunicazione, secondo me si può anche morire di web. La cosa che mi sorprende di più è l’esplosività del discorso sui social media. Quando si parla di leoni da testiera io effettivamente vedo che c’è una reattività, un’ostilità, una belligeranza che è impressionante. Naturalmente, sia ben chiaro, c’era anche prima, c’è sempre stata. Io ricordo perfettamente un’esperimento che fece Radio Radicale in cui lasciò le linee aperte per 24h e ognuno poteva dire quello che voleva per un minuto. Lì ci si accorse per la prima volta, con stupore e shock, che la maggior parte degli interventi contenevano violenza verbale e di insulti. E la cosa che colpì moltissimo fu soprattutto scoprire che esisteva un “sottosuolo” del quale non ci si era nemmeno resi veramente conto. Quello che è cambiato oggi è che il web permette a questo “sottosuolo” di esprimersi, di connettersi e unirsi in gruppi.

Ma può, in un certo modo, la democrazia entrare in conflitto con quello che lei definisce “sottosuolo”?

È Edoardo Boncinelli, un genetista, che ha descritto le nostre società come un sottosuolo molto grande e una crosta, depositata nell’arco di migliaia di anni, che è la cultura, la scienza, le arti e che ci ha ingentilito rispetto allo stato primordiale. Quello strato è molto sottile e si può rompere, questo è il problema. E se non c’è questa consapevolezza si corrono dei rischi. Anche perché l’errore più grave sarebbe quello di dare per scontata la democrazia. Anche se è consolidata non vuol dire che sia immortale. Noi, che non siamo attori politici, con questa conferenza vorremmo offrire delle riflessioni a chi è attore politico per far capire loro che non bisogna scherzare con il fuoco perché quella crosta è molto sottile e la democrazia, una volta perduta, ci vuole molto tempo per recuperarla.

A questo proposito, secondo lei quanto il web e i social media hanno influito nella vittoria dei populismi alle ultime elezioni? In ordine di tempo, per esempio, in Italia e in Ungheria.

Possiamo anche discutere di quanto abbia influito negli Stati Uniti, se è per questo. O nella Brexit. Ci si dimentica che nessuno di noi aveva previsto questi esiti. Mi sono ritrovato più di una volta a fare delle discussioni con dei colleghi, alcuni dei quali mi hanno spiegato che se lo sentivano. Secondo me, invece, mentivano, nessuno se ne era accorto. Io comunque non penso che siano stati decisivi, non credo che, per esempio Donald Trump abbia vinto a causa dei social media però sono certamente stati un’amplificatore potentissimo. La cosa che colpisce di più di Trump, che ha più di 50milioni di followers su Twitter, è che quando scrive qualcosa contro la saggezza convenzionale raggiunge subito tutte queste persone che lo seguono. Non esiste, dunque, un mezzo di comunicazione tradizionale – nemmeno per la televisione negli Usa, dove esistono centinaia di canali e network che coprono una rete nazionale vastissima -, che possa raggiungere 50 milioni di ascoltatori. In Italia, poi, c’è un partito che è di proprietà di una web company, la cui governance interna è opaca e che riceve addirittura indirettamente un finanziamento dal partito, poiché tutte le assemblee rappresentative, compreso il Parlamento, devono corrispondere mensilmente un contributo. Qualcosa che non credo abbia nessun parallelo precedente, o almeno io non memoria di una cosa del genere.

Secondo lei questa situazione come si andrà delineando nel futuro? Quali potrebbero esserne le evoluzioni e le prospettive a lungo termine?

Uno dei sospetti che ci sono venuti analizzando i dati, ascoltando gli interventi in questa due giorni di conferenza, è che dobbiamo accettare l’idea che non si tratta di un fenomeno temporaneo che sparirà. È quindi necessario attrezzarsi con delle politiche adeguate, con dei metodi di comunicazione e anche con una narrazione diversa. Io arrivo alla fine di questi due giorni con una considerazione che non avevo mai fatto prima. Quando Hillary Clinton disse che una parte degli elettori di Trump erano “a basket of deplorables”, letteralmente una cesta di gente deplorevole, io mi trovai assolutamente d’accordo. Provavo un fastidio infinito, anche perché la campagna elettorale era stata di una violenza inaudita. Arrivo, quindi, alla fine di questa conferenza con la consapevolezza che è sbagliato guardare dall’alto in basso questa gente. Queste persone vivono nelle nostre comunità e anche ammesso che si riescano a sconfiggere elettoralmente è necessario trovare un modo per comunicare con loro. Anche perché esprimo qualcosa a cui non abbiamo fatto abbastanza attenzione. Senza dimenticare che è altrettanto fondamentale, e questa una cosa rispetto alla quale non si può scappare, trovare forme di buon governo. Bisogna adottare politiche buone, non vedo altrimenti come sia possibile pensare di sconfiggere il populismo.

Nello specifico, in Italia, quali possono essere queste politiche?

Se passassero due cose, ovvero l’abolizione o la riduzione severa delle indennità parlamentari e il vincolo di mandato rispetto addirittura a entità esterne, la democrazia formale e anche sostanziale italiana sarebbe ferita. Detto questo la sconfitta elettorale di questi movimenti passa attraverso la confezione di buone politiche che sradichino o almeno tentino di sradicare la criminalità organizzata, che è dappertutto. Non dimentichiamo che l’apparato repressivo italiano, polizia, carabinieri, è oltretutto tra i più efficienti che esista in Europa e forse anche in Nord America. Il problema è poi la legislazione successiva alla repressione. Fino a quando lo Stato, le istituzioni non saranno in grado di offrire la quasi certezza del diritto, non si potrà abbattere niente. Bisogna, dunque, essere efficienti e fare delle buone politiche fiscali, economiche, monetarie, industriali. Nell’America anni ’60, con JFK, si diceva “bisogna innalzare la marea”, perché se si innalza la marea “anche le barche piccole salgono”.

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