L’astronautica e l’esplorazione dello spazio sono temi di grande fascino mediatico e che generano una forte carica emotiva. Il senso dell’ignoto profondo, unitamente al coraggio degli astronauti che lo affrontano, induce entusiasmo e ammirazione in tutti noi comuni mortali alle prese con i quotidiani problemi terreni. Poi, c’è un aspetto molto importante legato al fattore emulativo e di ispirazione che, soprattutto per le giovani generazioni, è un richiamo a modelli positivi e di crescita intellettuale.
Anche per dare un giusto seguito a questi modelli, gli interventi di osservatori o esperti sui media sono numerosi; in genere, oltre a spiegare come la nostra conoscenza scientifica tragga beneficio dall’esplorazione spaziale, molti di essi si chiedono anche come sia possibile che l’uomo non sia già sbarcato su Marte. La principale motivazione per le loro argomentazioni è che l’esplorazione dell’ignoto è nella natura dell’uomo, e la sua stessa sopravvivenza è legata alla sua capacità di spingersi oltre i confini della Terra e del Sistema solare. Il premio Nobel Stephen Hawking, ad esempio, ha dichiarato che la vita sulla Terra sarà sostenibile solo per altre poche centinaia di anni, poi sarà necessario migrare su un altro pianeta.
L’opinione di un premio Nobel va indubbiamente ascoltata, così come quelle di altri autorevoli esponenti del mondo scientifico, magari in controtendenza. A questo proposito, sono passate un po’ in sordina sui media, le dichiarazioni del direttore generale dell’Agenzia spaziale europea (Esa), Jan Woerner, il quale nell’inaugurare la Uk Space conference a Manchester nella metà del 2017, aveva dichiarato al quotidiano inglese The Times che: “La possibilità di una nostra migrazione sul Pianeta rosso non è solo lontana dalla nostra attuale tecnologia, ma sarebbe un’esistenza triste e vacua. Bisogna prendere le distanze dalle fantasie indotte dai film di Hollywood, come The Martian interpretato da Matt Damon, su come potrebbe essere la vita su quel pianeta desolato, e bisogna invece riconoscere che la colonizzazione è non solo una realtà molto più dura, ma soprattutto è la parola sbagliata. Volete vivere in un luogo dove è buio per la metà del mese, e nell’altra metà c’è il sole? Questa è la Luna. No. Vivere per due settimane nelle tenebre, non è una bella vita. E Marte è lo stesso. Se andate su Marte c’è più luce e la situazione è migliore, ma non potete uscire a fare una passeggiata. Dovete sempre essere protetti da tute e scafandri che vi forniscono ossigeno e protezione, e non potete portare il vostro cane a spasso tra gli alberi. Il film The Martian era bello, ma il pianeta Marte non è per niente bello. L’uomo andrà certamente su Marte, ma non ci sarà una colonizzazione. Io spero che non lasceremo questa Terra nei prossimi tre miliardi di anni, e che troveremo un modo per rendere più sicura la nostra vita su di essa, perché è difficile trovare un posto migliore nell’universo”.
In una breve intervista a un solo quotidiano italiano nel luglio scorso, Woerner aveva ripreso queste considerazioni, che quindi meritano, nonostante una generale indifferenza dei media, qualche spunto di riflessione sia per la fonte autorevole, sia per le implicazioni tecnologiche e filosofiche che sollevano. Il dg dell’Esa non ritiene impossibile, a medio termine quantomeno, un sorvolo del pianeta Marte da parte di un equipaggio umano, ma si tratterebbe di un touch-down la cui tempistica e soprattutto il costo sarebbero tutti da definire. Quello che Woerner dichiara apertamente, e in fondo anche candidamente, è che l’esplorazione dello spazio risulta facile a parole, nei film addirittura quasi banale e alla portata di chiunque, ma è in realtà ostile alla natura umana, e va quindi considerata con pragmatismo.
Lanciare sonde e satelliti nello spazio, e in parte anche esseri umani, è utile per migliorare la nostra vita sulla Terra, ma soprattutto ci dà le prove della assoluta necessità di vivere al meglio possibile sulla Terra, non di migrare in condizioni disagiate verso nuovi mondi. L’esplorazione spaziale ci aiuta a osservare il nostro pianeta con strumenti tecnologicamente sempre più efficaci, e così possiamo creare delle condizioni di sicurezza in grado di aumentare le nostre possibilità di permanenza su di esso. È questo uno dei concetti che dovrebbe essere alla base delle risposte agli importanti quesiti che vengono posti dai normali cittadini. Quest’ultimi semplicemente chiedono: “…Ma a cosa serve andare nello spazio?”, “… vale la pena spendere miliardi per lanciare degli astronauti, quando spedire delle sonde robotiche costerebbe molto meno?”. “…Vivremo davvero sulla Luna o su Marte? E per fare cosa?”. Solitamente a queste domande i cosiddetti “space advocates” replicano cose del tipo: “I ritorni economici sulla terra delle attività spaziali sono enormi, e con dei fattori moltiplicatori importanti”; oppure “l’avanzamento della conoscenza scientifica ormai è imprescindibile dai sistemi spaziali”; o anche “esplorare è nel Dna dell’uomo”.
Nelle parole sopracitate del dg dell’Esa cogliamo invece la semplice evidenza di un tecno-pensiero che, saldamente ancorato con i piedi per terra, ci dice in buona sostanza che al momento, e per un bel po’ di tempo ancora, non disponiamo di tecnologie che garantiscano con ragionevole sicurezza di andare molto lontano dalla Terra. Se, ad esempio, un astronauta appena rientrato a terra dopo sei mesi sulla Stazione spaziale internazionale (Iss) riesce a stento a camminare a causa di ipotensione ortostatica, pensiamo a come potrebbe gestire uno sbarco su Marte dopo un viaggio di oltre cento giorni nello spazio profondo. Sembra un problema banale ma non lo è; occorrono tecnologie biomediche che ancora non abbiamo, quali la conservazione del tono muscolare cardiaco (nelle missioni di sei mesi sulla Iss il cuore si sfericizza del 9,5% con rischi tuttora ignoti), oppure la riduzione dell’osteoporosi, o ancora la riduzione dello stress ossidativo dei bulbi oculari, e più in generale la protezione dai raggi cosmici (tema questo già accennato su Airpress 60). Di fronte a queste evidenze, affermare che “…prima o poi troveremo delle soluzioni tecnologiche, basta investire risorse” è un’ovvietà che sfugge però al reale significato della questione.
Investire ingenti fondi per studiare nello spazio tecnologie, quali quelle biomediche, per migliorare la vita sulla Terra con innovative terapie e cure, ha oggettivamente un senso che può essere facilmente compreso. Se per giustificare tali investimenti occorre evocare il fascino o l’imprescindibilità dell’esplorazione di altri pianeti, allora questo è uno strumento, e non un fine. C’è un senso anche in questa attitudine, che andrebbe calibrata con misura e realismo, e che in prospettiva indurrebbe a rinviare l’idea dell’uomo verso Marte bel al di là della seconda metà di questo secolo.