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Il muro tra Kenya e Somalia: il primo in Africa, il settantesimo nel mondo

muro

Un interminabile fossato in cui è interrata un’alta palizzata dotata di una rete metallica intrecciata a rotoli di filo spinato. Un altro controverso muro che nasce nel mondo, il settantesimo per l’esattezza, il primo in Africa, tra il nordest del Kenya e la Somalia.

Divisione nella divisione. Poveri contro poveri. Migranti contro migranti. Anche se la motivazione principale (e ufficiale) della sua costruzione – che iniziò alla fine del 2015, poi venne a lungo sospesa per le polemiche subito divampate, quindi è ripresa dopo altri infruttuosi negoziati tra i due governi – si concentra sulla difesa del confine dalle frequenti incursioni del terrorismo jihadista.

Nairobi ha detto e ripetuto che il Kenya si è visto costretto a decidere a malincuore di munirsi di un’efficace protezione dai temibili, spietati, “tagliagole” somali di Al Shabaab, che – nel 2013 in un centro commerciale della capitale e due anni dopo nell’università di Garissa – si erano resi responsabili di sanguinosi attacchi che avevano prostrato il Paese, sterminando decine e decine di innocenti, la maggior parte giovani e famiglie.

Quello che Nairobi evita però accuratamente di strombazzare è che l’intento del muro è anche quello (tutt’altro che secondario) di ricacciare indietro dalla tormentata Somalia la massa inerme e disperata di profughi che fuggono dalla fame, dalla siccità e dalla crudele, infinita, guerra civile tribale esplosa nel ’91 e mai – in realtà – giunta a piena conclusione. Sono stati eretti finora “appena” cinque chilometri e mezzo della minacciosa – insormontabile – barriera, ma la frontiera tra i due Stati si snoda lungo un accidentato tracciato di quasi settecento chilometri: l’imponente lavoro durerà mesi e mesi, non si è neppure sicuri che potrà davvero essere mai ultimato.

Il governo kenyota ha contemporaneamente più volte dichiarato l’intenzione di sgomberare e chiudere l’enorme, orribile, campo-lager di Nadaab, dove sono ammassati uno sull’altro, in condizioni miserevoli, 235mila sfollati. Negli ultimi quattro anni il Kenya – anch’esso terra di migranti – ha già rimpatriato quasi 78mila somali, ne restano ancora più di 300mila e il presidente Uhuru Kenyatta (nella foto), rafforzato dal recente accordo faticosamente raggiunto con il tradizionale oppositore Raila Odinga, sembra orientato ad abbracciare la linea dura contro i mal sopportati clandestini.

Immigrazione incontrollata e terrorismo, un binomio spesso inestricabile, almeno in ampie aree del continente nero. In Somalia, in particolare. Frutto del conflitto civile seguito – nei primi anni Novanta – alla caduta del dittatore Siad Barre, salito al potere grazie a un golpe militare, e alla rottura intercorsa tra le due fazioni del Congresso della Somalia Unita, che aveva deposto il sanguinario despota. Da allora quello vissuto dall’ex colonia italiana è stato un incubo: decine di migliaia di morti, una diaspora disseminata nei sei Stati confinanti, il proliferare di gruppi estremisti islamici fino alla nascita – nel 2006 – del più pericoloso, Al Shabaab. È per questo che – malgrado la svolta politica avviata a Mogadiscio nel 2012 con nuove istituzioni democratiche – il Kenya ha continuato a non fidarsi della Somalia. E ha scelto il “muro”. L’ennesimo “muro”.



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