Il nuovo segretario di Stato americano, l’ex direttore della Cia Mike Pompeo, è arrivato a Riad, prima tappa di un viaggio mediorientale che lo porterà anche in Israele e Giordania.
Ad accogliere il Boeing C-32A partito da Bruxelles, dove il capo della diplomazia dell’amministrazione Trump aveva partecipato alla ministeriale Nato, c’era il suo omologo Abdel al Jubeir con uno stuolo di funzionari in abito di rappresentanza, allineati direttamente sulla pista.
Pompeo, come già con i membri Nato e come già fatto dal suo capo, Donald Trump, con gli incontri presidenziali con Francia e Germania, ha un obiettivo: capire come i partner intendono approcciarsi al dossier Iran visto che è “unlikely” – parole di sue – che Trump resti nell’accordo nucleare con l’Iran senza “sostanziali cambiamenti”.
A Riad trova sponde migliori che in Europa, visto che l’Iran è considerato il nemico esistenziale saudita contro cui il nuovo corso saudita sta dirigendo la propria politica estera assertiva nella regione – e dunque Pompeo vuol anche capire cosa questi alleati vorrebbero da Washington a proposito della questione.
Il 12 maggio Trump dovrà decidere se restare o meno nel deal stretto nel 2015 tra Teheran e il meccanismo multilaterale 5+1, composto dai cinque del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania. Il segretario è un falco repubblicano anti-Iran: ai tempi in cui l’amministrazione Obama aveva messo in piedi il grande sforzo internazionale per chiudere l’intesa con la Repubblica islamica, Pompeo diceva che l’unica soluzione con gli ayatollah era spianare i loro reattori nucleari.
Ora ne dà una lettura diversa: durante l’audizione di conferma per il suo incarico ha detto che cercherà di lavorare per una soluzione diplomatica. Ma in quel momento, davanti alla Commissione Esteri del Senato, serviva anche mantenere una postura più aperta nei confronti dei democratici.
In realtà la linea dura non è cambiata (anche il solo fatto di pensare che l’accordo con l’Iran sia un problema da risolvere, quando invece in altre segreterie di Stato è considerato un dossier quanto meno congelato, ce lo dice già). Però ci sono segnali che dicono che in parte sembra modificata.
Prima di partire per il viaggio, per esempio, Brian Hook (policy maker del dipartimento di Stato che sta curando i contatti con i partner, soprattutto con gli europei che sono molto scettici sulla linea dura, e che non a caso in questi giorni viaggia con Pompeo) ha detto che gli Stati Uniti stanno “esortando le nazioni di tutto il mondo per sanzionare tutti gli individui e le entità associate al programma missilistico iraniano, ed è stata anche una grande parte delle discussioni con gli europei”.
Hook intendeva Emmanuel Macron e Angela Merkel, due sostenitori pragmatici del deal – è la soluzione migliore, se non l’unica, dicono – che si sono presentati in questi giorni alla Casa Bianca anche per cercare di convincere Trump a restare (l’americano, durante una conferenza stampa con il francese, è tornato a definire l’accordo con l’Iran “il peggiore di sempre”, come lo chiama fin dalla campagne elettorale).
Washington vuol colpire il programma missilistico iraniano, teoricamente vietato da una vecchia risoluzione Onu, e dunque tecnicamente non incluso nei commi dell’accordo sul nucleare. Teheran ha approfittato di questa debolezza regolamentare e testato missili, che per gli americani (e per i sauditi e per gli israeliani) saranno poi usati per trasportare ordigni nucleari una volta che il Nuke Deal, che ha un valore temporale, decadrà.
Se c’è un punto di contatto su cui gli alleati americani – anche i più morbidi con Teheran – potrebbero dare garanzie a Trump è proprio questo dei missili: le sanzioni ventilate dal dipartimento di Stato potrebbero essere accettate, costruite in termini mirati ma severi, e potrebbero permettere al deal di restare in piedi.
La posizione di Riad nei riguardi dell’Iran è nota: l’Arabia Saudita del nuovo erede al trono Mohammed bin Salman (che ha ottime entrature a Washington e con cui Trump ha ristretto l’alleanza storica annacquata proprio dall’Iran Deal ai tempi dell’amministrazione Obama) ha ingaggiato un confronto a tutto campo con Teheran.
Il giorno dell’arrivo di Pompeo, per esempio, i ribelli yemeniti Houthi, contro cui i sauditi stanno combattendo per bloccarne l’avanzata e riconquistare il paese, hanno sparato otto missili nella città meridionale di Jizan (ed è anche per questo che la questione missilistica è particolarmente sentita). Il Regno sostiene che quei missili sono stati forniti ai ribelli nordisti dello Yemen dall’Iran, che usa la rivoluzione yemenita come guerra proxy contro l’Arabia Saudita. E l’America sposa questa teoria, anche attraverso le proprie informazioni di intelligence.
Uscito dall’Arabia Saudita, Pompeo arriverà in Israele, dove terrà un vertice con il primo ministro Benjamin Netanyahu. Se Riad è dura, Tel Aviv è durissima contro l’Iran. Gli israeliani hanno già avviato da tempo una campagna militare contro il secondo dei problemi (oltre al programma missilistico) che gli americani citano quando parlano di un accordo nucleare debole e scricchiolante: la crescente influenza armata che Teheran sta diffondendo nella regione mediorentale.
Israele ha bombardato almeno cento volte i passaggi di armi sofisticate che i Guardiani iraniani stanno facilitando verso Hezbollah (gruppo armato che praticamente controlla il Libano e potrebbe usare quelle armi per riprendere il conflitto con Israele), sfruttando la cortina fumogena offerta dal conflitto siriano.
Americani e israeliani (e sauditi) concordano su un punto: gli ayatollah non possono fare i bravi con i reattori e poi diffondere il loro germe velenoso, dallo Yemen al Libano e per tutto il Medio Oriente. I due argomenti, più quello dei missili, devono essere inclusi in un unico dossier, dicono.
(Foto: Twitter, @StateDept)