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Perché Popper è meglio di Rousseau per spiegare il successo di 5 stelle e Lega

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A Karl Popper è toccato un insolito destino. Esponente di primo piano della cultura europea, in Italia il suo successo è stato relativo. Le sue opere sono state apprezzate da una ristretta cerchia intellettuale, ma non si può dire che abbiano avuto la diffusione che meritavano. Due i peccati originali: il culto della libertà e la critica feroce nei confronti di ogni forma di totalitarismo. Una demolizione, in questo secondo caso, che ha coinvolto i relativi fondamenti filosofici, oltre che politici. Il secondo volume della sua opera più conosciuta (La società aperta e i suoi nemici) ha come sottotitolo: Hegél e Marx falsi profeti. Bastava molto meno per attirarsi i fulmini dell’intellighenzia militante, in Italia.

Che il suo mancato apprezzamento abbia comportato una grave lacuna, oggi, appare particolarmente evidente. Il metodo suggerito, nell’analisi della società che deve rimanere “aperta”, nonostante i venti gelidi del protezionismo, è un vero e proprio radar che consente di scoprire ciò che si muove all’orizzonte. E che sfugge alla normale vista degli umani.

Per Popper, in linea con la tradizione del moderno pensiero liberale, lo Stato è solo un male necessario. I suoi poteri vanno quindi limitati al minimo indispensabile. “Il mercato fin dove è possibile, il governo quando è necessario”: vecchia tesi di Giulio Tremonti. Ma il vero problema politico – secondo il filosofo austriaco – non consisteva nel chiedersi chi deve comandare. Ad essa non si poteva che rispondere “i migliori” con la conseguenza di attribuire a coloro, che si ritenevano tali, un’autorità assoluta. L’impostazione corretta consisteva, invece, nel chiedersi come era possibile organizzare le istituzioni politiche in modo che i governanti cattivi o incompetenti non potessero fare danni eccessivi.

Il fondamento della democrazia liberale era quindi il ricambio. Sperimentare i governanti. Valutarne l’operato. Quindi decidere se riconfermarli oppure rivolgere altrove lo sguardo. Il modello che sta dominando l’intera congiuntura politica europea. Il vecchio equilibrio che salta in Francia e consegna lo scettro ad Emmanuel Macron. Le difficoltà di Angela Merkel. Il caso spagnolo. Ma gli esempi potrebbero continuare. L’Italia, dal canto suo, non ha fatto eccezione. Anzi l’oscillazione del pendolo è stato costante fin dalla nascita della cosiddetta Seconda Repubblica. Per poi accelerare in quest’ultima fase, in cui ad esserne coinvolte sono state quelle forze che avevano svolto un ruolo preminente nel lungo ciclo di quell’esperienza.

La prima vittima di quella legge non scritta della democrazia rappresentativa fu la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto. Sembrava cosa fatta ed invece la discesa in campo di un outsider, come Silvio Berlusconi, lo stoppò a due passi dal traguardo finale. L’elettorato non si fidò del passato di quel partito politico, nonostante fosse l’unico sopravvissuto al “tintinnar di manette” che aveva segnato la fine ingloriosa di una lunga stagione.

Forza Italia fu costruita ad immagine e somiglianza del suo leader. Partito personale: come più volte si è ripetuto nel corso di questi lunghi anni. Definizione in parte consolatoria. Quella struttura organizzativa altro non era che il derivato di una leadership effettiva, che il suo fondatore aveva saputo costruire, con una parte maggioritaria dell’elettorato italiano. Questo era il fondamento della sua legittimazione. Che si trasferiva, attraverso la sia figura, a favore degli altri dirigenti di quella formazione politica. Che non potevano avere una forza autonoma, non avendo un rapporto diretto ed altrettanto solido con la pubblica opinione.

Era quindi Silvio Berlusconi, solo lui, che perdeva o vinceva le successive tornate elettorali. Contro Romano Prodi nel 1996, dopo l’interregno di Lamberto Dini. Quindi di nuovo in sella nel 2001. Per poi perdere ancora con Romano Prodi nel 2006 e risorgere nel 2008. Fino alla lunga eclisse con Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi e, infine, Paolo Gentiloni. Le oscillazioni del pendolo: via chi aveva governato. Vita più o meno lunga ai nuovi governi che nascevano dalle ceneri dell’opposizione.

Schema che ha dispiegato tutta la sua potenza nelle ultime elezioni. Anche se, in quest’ultimo caso, con alcune varianti degne di nota. Vittime scarificali sono stati, infatti, gli alleati del Nazareno. Vale a dire quell’insieme di forze che, direttamente o indirettamente, avevano fatto parte di quell’intesa: quindi il Pd, i centristi nati da una costola di Forza Italia. Ma anche quest’ultima formazione politica, nonostante le incertezze e le oscillazioni che ne avevano caratterizzato gli orientamenti. Anche in questo caso loro era stato il governo del Paese. Loro quindi la successiva sconfessione da parte dell’elettorato.

Si spiega così il successo dei 5 stelle e della Lega: oggi in grado di dare un assetto diverso alla politica italiana, come avvenne all’indomani del 1992. Rispetto alla quale sono evidenti almeno due analogie: una crisi economica, comunque, devastante; i cambiamenti istituzionali che la nuova fase politica sembra recare in grembo. Allora vi fu il passaggio da un sistema proporzionale ad uno tendenzialmente bipolare. Oggi spunta, invece, la faccia poco rassicurante di Rousseau. Il filosofo che, secondo lo stesso Popper, armò, con le sue teorie, la mano di Massimiliano Robespierre, dando inizio agli anni del Terrore.

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