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Russia, Ungheria, e il fascino delle democrazie illiberali. L’opinione degli esperti

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Perché Vladimir Putin e Viktor Orban hanno fatto un en plein così clamoroso alle urne? È una domanda che dovrebbero porsi seriamente a Bruxelles e anche al più presto. Perché le critiche incondizionate a Mosca e Budapest mettono a nudo l’autoreferenzialità di alcune élites europee. Di più: sono la linfa vitale di queste “democrazie illiberali” (copyright di Orban) e offrono il fianco alla loro narrazione euroscettica, rendendola più “sexy” agli occhi degli Stati vicini.

La strabordante vittoria di Fidesz, il partito di Orban che conquistando i 2/3 dei seggi ha oggi i numeri per passare in autonomia le riforme costituzionali, si aggiunge alla lista preoccupazioni di Bruxelles assieme a una pesante involuzione democratica del governo polacco, complice di una riforma del sistema giudiziario che rischia di cancellarne l’autonomia, e ovviamente al risultato tutto fuorché euro-entusiasta delle elezioni italiane. Ma può davvero l’elezione ungherese essere messa sullo stesso piano del plebiscito russo verso Putin? A sentire tre eminenti politologi come Ronald Linden, Eszter Salgó e Hans Noel, che mercoledì hanno preso parte a un dibattito organizzato dal Guarini Institute alla John Cabot di Roma e moderato da Federico Argentieri, c’è più di un motivo per pensare che il paragone non sia forzato.

“La democrazia è un sistema dove i partiti perdono le elezioni” esordisce Linden, professore all’Università di Pittsburgh con un passato nelle aule di Princeton, “in una democrazia ci sono elezioni dove la competizione è reale, genuina, trasparente”. A seguire il ragionamento del professore, Russia e Ungheria sembrerebbero escluse da queste dinamiche. Perché allora mettere in piedi una così poderosa macchina elettorale, che brucia peraltro ingenti risorse economiche? “Per mobilitare il supporto” taglia corto Linden, “leader come Orban e Putin hanno una visione del mondo e le elezioni danno loro la chance di affermarla”. È il caso delle elezioni che hanno confermato Putin per un quarto mandato: “il voto è servito a rigettare le accuse del mondo occidentale, a rafforzare la sua percezione di leader, a mettere in ginocchio le opposizioni attaccandole sulla stampa”.

“In Russia le elezioni non sono libere, Orban in Ungheria non ha lo stesso controllo di Putin sulla società” ci tiene a precisare invece Hans Noel, politologo della Georgetown University. Resta però la preoccupazione per una lenta, inesorabile trasformazione dello Stato ungherese, dove Orban è reo di una “sistematica trasformazione delle istituzioni, un sempre più pressante controllo sull’opinione pubblica e sui lavoratori delle pubbliche amministrazioni”. Ora che Orban ha ricevuto il crisma del voto popolare c’è da aspettarsi, spiega Noel, una presenza più ingombrante dello Stato, soprattutto nel campo del business: “Se un affare non è di gradimento al capo del governo, allora si fa in modo che vada a monte”.
Eszter Salgó, cattedra di relazioni internazionali alla John Cabot, nata e cresciuta a Budapest, non si stupisce dell’Ungheria di Orban. La società ungherese è ancora pervasa, spiega, da una mentalità “post-sovietica”, “intrisa di rabbia, frustrazione, sottomissione”. “Ritorno dell’autoritarismo? In Ungheria la democrazia non è mai esistita” continua la professoressa, “oggi c’è un sistema di sorveglianza orwelliano”. I segnali erano chiari già nel 2010, quando Orban esultava all’indomani delle elezioni parlando di “rivoluzione alle urne” e di voler “metter da parte” le organizzazioni della società civile che avrebbero potuto mettere i bastoni fra le ruote al suo programma di governo (Ong in primis).

L’Europa ha le sue colpe, eccome. Ha sbagliato a “non prendere sul serio il fenomeno Orban”, che infatti in questi giorni ha raccolto endorsement incondizionati anche da quei colleghi del Ppe che potrebbero (o forse dovrebbero) quantomeno mettere in discussione il suo progetto di “democrazia illiberale”. Ma soprattutto sbagliò l’Europa negli anni ’90 a pensare di poter “europeizzare” i Paesi dell’Est appena usciti dalla cortina di ferro, di “trasformarli automaticamente in democrazie grazie al soft power dell’Ue”. A giudicare dal caso ungherese, ma anche dalle tentazioni illiberali di altri Stati dell’Est Europa, l’errore di quel calcolo oggi “è sotto gli occhi di tutti”.

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